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Fight Club 2

Autore:
Chuck Palahniuk & Cameron Stewart
Editore:
Bao Publishing

Il nostro giudizio

Fight Club, sia nella sua incarnazione cinematografica sia nella sua incarnazione letteraria, è un’opera di cui pensare un seguito è un’idea come minimo impegnativa. In maniera non dissimile da Star Wars, infatti, la creatura di Chuck Palahniuk, e ancor più la trasposizione su  grande schermo di David Fincher, sono oggetti di culto su cui, in maniera non dissimile seppur su scala ridotta, dal caso delle avventure di Luke Skywalker e soci, il pubblico ha proiettato moltissimo in termini di vissuto e di aspettative, creando un canone de facto difficile e rischioso da infrangere. Aggiungiamo poi che, a differenza dell’opera di Lucas, che si è prestata felicemente a diverse estensioni a latere di un universo narrativo perfettamente funzionale alla multimedialità, Fight Club ha una compiutezza, sia in termini di trama sia per soluzioni narrative adottate, che rendono estremamente difficile andare oltre creando un prodotto soddisfacente.

Palahniuk ci prova lo stesso cambiando medium, Fight Club 2 è infatti una graphic novel, e portando all’estremo un discorso metanarrativo in cui, di fatto, parla proprio dell’idea di fare un sequel di Fight Club, lanciandosi in una critica tagliente su di sé come scrittore affermato ma non si sa con quanto ancora in grado da dire, sul suo pubblico e sul rapporto che esso ha con la sua opera. Il risultato è una gigantesca quanto intelligente supercazzola in cui ogni idea viene volutamente portata all’estremo, volutamente oltre il limite del sensato e del ridicolo.

Se, tuttavia, un percorso narrativo del genere è funzionale alla critica radicale portata avanti da Palahniuk, l’opera ne risente moltissimo in termini di fruibilità, risultando confusionaria e poco leggibile. Fight Club 2 non aggiunge nulla al proprio predecessore, sia per quanto riguarda i contenuti, sia per quanto riguarda lo stile, Cameron Stuart compie infatti un buon lavoro alle matite pur non riuscendo nemmeno ad avvicinarsi allo scrittore di Portland né, meno che mai, a Fincher, che dal canto suo aveva messo in piedi un dispositivo narrativo tanto compiuto da non aver bisogno di aggiunte di sorta. Un’opera tutto sommato onesta ma di cui non c’era realmente bisogno.