I cinque della vendetta
Una delle contaminazioni reciproche più felici nella storia della narrazione, in particolare del cinema ma non soltanto, è quella fra il genere western, spaghetti o americano, e una lunga serie manga e anime. Se, infatti, Akira Kurosawa con I sette samurai ha ispirato un classico come I magnifici sette, dal cinema di Sergio Leone traggono spunto opere altrettanto fondamentali nel loro genere quali Ken il guerriero.
Non c’è dunque da stupirsi se un decano del calibro di Leiji Matsumoto, il creatore di Capitan Harlock, mangaka poliedrico la cui produzione spazia da Galaxy 999 ai video dei Daft Punk, offre il suo tributo a un immaginario che tanto ha influenzato la scena in cui ha prosperato. A prima vista I cinque della vendetta può sembrare disarmante: un adattamento giapponese, datato 1967, di uno spaghetti western dal titolo omonimo girato da Aldo Florio. L’idea pare inusuale, ma funziona.
La cifra è quella della sintesi estrema, la scrittura minimale racconta una storia che va dritta al punto veloce come una palla di fucile, con una rapidità e un ritmo inusuale per un genere che vive di tempi narrativi dilatati e di attese che culminano in momenti di risoluzione esplosiva dei conflitti. Se questi ultimi rimangono sotto forma di sparatorie tirate e violente, i momenti più statici sono ridotti all’osso, non eliminati ma accorciati. Il risultato è una rilettura nervosa e graffiante del genere, un’opera incisiva nella sua semplicità ma espressiva nella sua rapidità. I cinque della vendetta si legge in pochi minuti ma qualcosa rimane. Una perla, piccola ma preziosa.