Kobane Calling
Piaccia o meno, Zerocalcare fa successo. Un successo della madonna. Vende, vende un casino. Qualcuno dice che fa mercato a sé, e lo dice a ragion veduta. Sì perché Zerocalcare è trasversale, non si rivolge ai soli lettori di fumetti, o quantomeno non raggiunge solo loro. Le sue opere intercettano alla grande un paio di generazioni, in pieno i Millennials e la Generazione X in buona parte, se non del tutto. Due generazioni, quelle di cui sopra, che per la prima volta nella Storia sono cresciute in un contesto di ipertrofia dell’intrattenimento di massa a scopo commerciale, in un’epoca, la nostra, in cui i prodotti intellettuali consumati per svago hanno un ruolo tale nella vita interiore delle persone da diventare vere e proprie coordinate culturali, una mitologia per stratificazione che entra a far parte del quotidiano e persino nel vocabolario delle persone. Due generazioni, la Generazione X e i Millennials, la cui principale occupazione è guardarsi l’ombelico. Dimenticato il problema pressante della sopravvivenza e archiviate le grandi narrazioni che davano un orizzonte di senso allo scenario umano dell’occidente del secondo dopoguerra, queste due generazioni non pensano che a loro stesse, al proprio mondo interiore, fatto di quotidianità spicciola e nevrosi di varia misura. Zerocalcare parla a queste persone, al loro vissuto e al loro inconscio fatto di cartoni animati, adolescenze protratte all’infinito e autoreferenzialità. E fin qui tutto bene. La cosa può piacere o meno.
Le regole cambiano quando fai Graphic Journalism, però. Lì non sei più tu, il tuo ombelico e le strizzate d’occhio a quelli cresciuti nei tuoi stessi anni. Lì fai qualcosa che è anche fumetto, ma è anche giornalismo. Fai reportage, magari romanzati, ma il rapporto con i fatti cambia. Non è più me, myself and I, non sei più tu e il tuo ombelico. Se fai così, la parola Journalism diventa velleitaria, e il tuo lavoro diventa scorretto. Sì, perché Kobane Calling è esattamente questo: «Ciao, guardatemi, sono Zerocalcare e sono a Kobane! Non sono più a Rebibbia, sono a Kobane! Guardatemi!». E no, Graphic Journalism non affatto questo. Certo, la cosa più onesta che un narratore può restituire al lettore è il proprio sguardo, ma esso è uno strumento per raccontare, non il fine della narrazione stessa. A quel punto è ancora il tuo ombelico che stai guardando e il resto è messo lì a valorizzare te, quanto sei bravo e quanto sei divertente. Kobane Calling non si differenzia dagli altri lavori di Zerocalcare che, quanto meno, sono contestualizzati. Qui l’autoreferenzialità è stridente, lo sguardo del narratore è una lente che passa attraverso gli eventi cogliendoli, e solo a volte, in maniera incidentale, li usa come specchio per riflettere ancora e soltanto sé stesso: lo sguardo del narratore.
Il registro è poi fuori luogo, manieristico, completamente avulso dal proprio ambiente narrativo d’origine, al punto da rendere l’ironia di Zerocalcare inefficace quando non irritante. I fatti sono raccontati allo stesso modo in cui si raccontano le puttanate combinate da giovani e la vita da baretto di quartiere, fino a rendere la realtà raccontata, interessantissima e poco compresa, una nota di colore, quasi si stesse leggendo il resoconto comico di una vacanza. Ci sta poi che il giudizio sia sbilanciato a favore del PKK, specie quando dall’altra parte hai l’ISIS, nessuno chiede di non prendere posizione in contesti del genere, ma nessuno sforzo reale è fatto per raccontarlo, questo nemico. I cattivi sono ancora quelli con il cappuccio nero a cui interessa solo decapitare l’infedele. Retorico, unilaterale e lontano da quel tentativo di obiettività che il Journalism che segue il Graphic vorrebbe significare. Kobane Calling è brutto, brutto e scorretto, funzionale a niente che non sia espandere il bacino d’utenza del prodotto Zerocalcare. Che, per esser chiari, vende un casino. E allora forse va bene così, se tutto si riduce a questo.