La bella morte
Un indice interessante della capacità di un autore è quello di saper costruire, intorno ad alcuni elementi ricorrenti, storie profondamente diverse che, con ritmi, situazioni e registri completamente differenti non perdono la marca distintiva di uno stile che identifica l’autore stesso costituendone una voce chiara e definita.
Mathieu Bablet fa questo lavoro, e lo fa alla grande, con due delle sue opere: La bella morte, il suo fumetto d’esordio, e Shangri La, la sua terza opera. Gli elementi comuni sono molto forti, quanto profonde sono le differenze fra i due volumi.
Ambedue le storie, infatti, sono un movimento che, fin dal principio, porta verso un finale in cui tutte le parti in gioco convergono in un buco nero che genera una forza centripeta che inghiotte tutto. L’altro elemento in comune è la resa grafica degli ambienti: grandi, vertiginosi paesaggi urbani che prendono a prestito dal miglior Otomo (con una spruzzata di Miyazaki per quanto riguarda le creature ritratte in La bella morte). Qui i punti in comune finiscono e, dove Shangri La è un complesso racconto corale che sale in un crescendo di tensione, La bella morte lavora molto più in profondità sulla dimensione introspettiva dei personaggi che si muovono in uno scenario post apocalittico che, per certi versi, ricorda Io sono leggenda di Matheson.
I tempi narrativi si dilatano e l’accelerazione è dolce, mantiene anche sul finale un’atmosfera delicatamente onirica con un costante mood malinconico che dà corpo a un racconto che riesce a essere crepuscolare nonostante il fumetto sia ambientato quasi sempre in piena luce.
La bella morte è una lettura densa e soddisfacente, un racconto ricco di sostanza, lo storytelling è sincronico e totale, tipico di un autore completo che padroneggia con maestria testo e disegni. Il taglio è autoriale ma mai pesante, per un’opera dall’alta fruibilità ma mai troppo leggera.