Shangri La
2001: Odissea nello spazio è indimenticabile per mille motivi. Uno di questi è l’immenso lavoro di world building fatto a livello visivo. Le scenografie sono parte integrante del lirismo del lavoro di Kubrick, giocano un ruolo capitale nel dare alla pellicola un respiro ampio, un sense of wonder che resta intatto visione dopo visione trasmettendo allo spettatore un senso di grande opera di fantasia, di sforzo d’immaginazione massimalista finalizzato alla creazione di una storia che, in termini di grandeur, non si risparmia nemmeno per un secondo.
Bablet impara la lezione, e lo fa alla grande. Shangri La è un’opera enorme sotto molti aspetti. Narrativamente c’è sintesi, tanta ed efficace. L’enormità meravigliosa della space opera, la critica politica graffiante di molta fantascienza dal cyberpunk in poi e quel respiro filosofico che dà origine a quel felice neologismo che è speculative fiction. Punta in alto, Mathieu Bablet, se la gioca in maniera ambiziosa con una trama corale, complessa e articolata, sia per quantità di linee narrative sviluppate e fatte convergere, sia per la moltitudine di personaggi sviluppati efficacemente in uno spazio ridotto, sia in generale per il meccanismo articolato in cui tutto si incastra a dovere, ricchissimo sia dal punto di vista dello storytelling sia dal punto di vista della densità concettuale.
Graficamente, Shangri La è semplicemente incredibile, e il paragone con 2001: Odissea nello spazio non è né casuale né esagerato. Bablet pensa in grande nel realizzare tavole ampie con prospettive vertiginose che raccontano la grandezza degli spazi siderali con la voglia e con la capacità di lasciare a bocca aperta, con uno stile che fa propria la lezione di mangaka come Katsushiro Otomo (Akira) e Tsutomu Nihei (Blame!) integrandola felicemente con l’amore per il dettaglio tipico del fumetto francese, in una fusione fra dinamismo e scenari mozzafiato che gira come un orologio svizzero. Da applausi.