Symposium Club
Danno l’horror per morto, danno il punk per morto, e Dave McKean ha smesso di essere una novità diversi anni fa. Eppure, forse proprio perché il genere trionfa nella putrefazione, una mescolanza di elementi che da soli vengono considerati già ben oltre la decomposizione (salvo McKean, che piace sempre) può ancora dar vita a un fumetto come minimo coraggioso, sicuramente non privo di una sua potenza, in ogni caso scritto col piede sull’acceleratore. Perché Edizioni Inkiostro è così, pubblica fumetti molto diretti, senza grosse vie di mezzo, molto autentici e in your face. Non certo roba per palati fini, ma nemmeno lo vogliono essere, gli autori Inkiostro.
Preferiscono quella schiettezza di un certo cinema di genere, quello più sporco e meno fighetto, che dice quel che deve come sa fare solo chi non ha nulla da perdere o santi in paradiso. E così fanno Cavaletto e Schwanz con il loro Symposium Club, un horror a metà tra il politico e l’esoterico che ricorda un po’ il Clive Barker dei tempi d’oro. Un fumetto breve, la cui estensione ridotta è un pregio e un difetto al tempo stesso. Un pregio perché gli autori non si perdono in chiacchiere e sparano dritta a bersaglio una storia che non si perde in convenevoli, vola come una freccia da A a B che quasi non te ne accorgi. Il difetto è che quasi non te ne accorgi, che di per sé forse non è un difetto perché se qualcosa zoppicasse forse il tutto scorrerebbe più lento, ma siccome tutto funziona il fumetto si legge in un attimo e tu resti lì, dispiaciuto che la fine sia arrivata così in fretta.
Accennavo a Dave McKean, perché graficamente il fumetto sembra ispirarsi parecchio all’illustratore di Arkham Asylum, la presenza del padre nobile, a scanso di smentite, sembra vedersi e fa piacere, perché Symposium Club deve molto al suo aspetto visivo quell’atmosfera morbosa e disturbante che lo caratterizza, quel suo essere una centrifuga punkeggiante di satira, horror e mitologia che ti sbatte al centro di un piccolo ciclone e ti risputa intero poche, troppo poche, pagine dopo. Insomma un bel lavoro, con quel suo fascino vagamente fanzinaro che se ti piace bene, se non ti piace chissenefotte perché Schwanz e Cavaletto non sono mica in cerca di un endorsment facile. Dicono quel che vogliono dire, anzi, lo urlano e se ne vanno sbattendo la porta.