Gaspar Noé
Dal corpo (di un cavallo, di un macellaio, di un sodomita accecato dall’ira), all’esperienza psichedelica dell’allucinazione. Il tempo distrugge tutto...
Carne. Enter the Void. È così che Gaspar Noé apre e chiude (per ora) la sua carriera di cineasta erotico, con una relazione ossimorica tra due termini in qualche modo tra loro complementari: la carne, e quindi la materia compatta, dura e granulosa, e il vuoto, sfilacciato, evanescente come la luce, pieno di baluginanti fantasmagorie allucinatorie. È un percorso, quello delineato da Noé, argentino trapiantato su suolo francese, che parte dalla realtà per approdare alla fantasia, che affonda nelle miserie del quotidiano per astrarsi in una dimensione trascendente, capace di sussumere a quelle stesse chimere di cui i capricci della libido si fanno garanti.
Proprio l’ossessione è il concetto chiave per accostarsi al suo cinema, la fissazione barocca, l’arzigogolo sessuale che spinge i suoi disperatissimi protagonisti ad amare in modi bizzarri, folli, per non dire espressamente diabolici: Irréversible (2002), forse la sua pellicola tutt’oggi più famosa, iniziava proprio con una testa fracassata durante un’orgia omosessuale al Rectum, un immaginoso club gay più simile a una misteriosa bolgia dantesca che a un locale per feticisti. Il colpevole del reato, Vincent Cassel, puniva il giovane psicotico che gli aveva violentato la moglie interpretata da Monica Bellucci: i nove minuti di stupro anale ripresi in piano sequenza, macchina fissa dimenticata sul pavimento deserto di un sottopassaggio, scandalizzarono le platee di mezzo mondo festivaliero ancora più del fatto che la pellicola cominciasse dalla fine, cioè dai titoli di testa, per scorrere a ritroso fino a quelli di coda.
Lo stile di Noé era disturbante, nichilista, profondamente misogino, eppure quello era l’unico modo per intrappolare lo scorrimento eracliteo del tempo, raffigurare il non raffigurabile, rubare ciò che altrimenti sarebbe stato destinato all’oblio. Le temps détruit tout. Lo sa bene Philippe Nahon, a cui è affidato il celebre aforisma del film, che proprio pochi anni prima fu protagonista di due altri lavori di Noé, Carne (1991) e Seul contre tous (1998), l’uno seguito dell’altro: lì faceva il boucher, per dirla con Chabrol, il macellaio, prima che perdesse casa e bottega per risarcire un disgraziato ridotto a disabile dopo che l’uomo lo aveva erroneamente incriminato dello stupro della figlia autistica.
Nahon nutre le sue fissazioni incestuose in una banlieu fredda e inospitale, tra proiezioni esplicite di pellicole a luci rosse, rapporti contronatura consumati sul tavolo della cucina, ragazzine violentate in anonime camere d’albergo. Tutto è lecito, nel mondo malato di questo inquietante padre padrone, che ha diritto di vita sulla moglie, costretta ad abortire a calci e pugni, e sulla figlia, amata, coccolata sulle note commoventi di Pachelbel, infine violentata come se l’abuso sessuale fosse la più disinvolta manifestazione d’affetto genitoriale.
E che dire di Sodomites (1998), pubblicità progresso finanziata dal ministero della sanità francese? In un garage periferico, pieno di brutti ceffi, viene inscenata un’orgia avente come protagonisti un molosso mascherato da licantropo e la bella Sodoma, ovvero Coralie Trinh Thi, porno diva che alcuni anni più tardi affiancherà Virginie Despentes alla regia del film scandalo Baise-moi. Film nel quale, durante una selvaggia scena di sesso mercenario, Karen Bach si distrarrà guardando alla tv proprio un frammento di Seul contre tous.
In Sodomites la Trin Thi si fa penetrare dal lupo scatenato, prima che gli spettatori fetish del sotterraneo gli ricordino di usare un preservativo. È allora il sogno a concupire l’emotività sfacciata di Noé, con le sue frange oniriche, gli strascichi visionari, i frammenti di abbacinante orrore che si tingono di subitanea e improbabile speranza: il suo stile licenzioso, di una volgarità delicata e delicatamente compiaciuta, si insinua nelle intercapedini della psiche, seducendone le pulsioni più nascoste per trasformarle in una metafora anticipatrice di un certo surrealismo alla Leos Carax.
D’altronde è proprio la trascrizione di un sontuoso delirio kubrickiano quella che il regista inscena in Protège-moi, video musicale realizzato nel 2004 per i britannici Placebo: un’unica ripresa in continuità, senza stacchi né dissolvenze, che galleggia tra i partecipanti di un’appassionata partouze. Tutto è immerso in un’atmosfera congelata, tra corpi statuari che paiono fluttuare in uno scenario rossastro e sfumato, locali ampi e arredati con gusto, la musica ipnotica che serpeggia tra una fellatio e un cunnilingus e saffiche effusioni: immaginate un ipotetico incontro tra Paul Delvaux e David Lynch, e per farvi un’idea della situazione condite il tutto con le atmosfere notturne e raffinatamente decadenti di Arthur Schnitzler.
È qualcosa di vagamente simile che vedremo di lì a poco nel corto We Fuck Alone, contenuto nel collettivo Destricted (2006), in cui un ragazzo e una ragazza si masturbano con l’aiuto, rispettivamente, di un orsetto di pezza e una volgarissima bambola gonfiabile: la pornografia dello sguardo infastidisce a tratti ancora più (e meglio) dell’esibizione crudele dei corpi, con questi continui spostamenti della macchina da presa, che passa dal sesso inscenato di un film per adulti, proiettato su un televisore, a quello solitario ma nondimeno perfettamente esplicitato dei due protagonisti. I due piani della realtà (la pellicola nella pellicola, i ragazzi che si toccano divenendo a loro volta parte integrante del mercato pornografico d’essai) si incastrano in un gioco di rifrazioni a specchio, in cui le regole della rappresentazione sono scardinate e continuamente riassemblate.
Sembra di assistere alle prove generali di Enter the Void (2010), film sperimentale in cui un giovane pusher viene ammazzato dalla polizia e la sua anima si mette a volteggiare tra le insegne luminosissime del Void, un sontuoso bordello di Tokyo in cui si consumano sogni e desideri di un’umanità ubriaca di illusioni. La soggettiva in piano sequenza torna a essere il mezzo espressivo privilegiato dal regista, quel grado zero della messa in scena in cui ogni autore, come ogni pornografo, trova il più perfetto compimento della propria poetica.
Siamo ormai nell’irrealtà stupefacente di un prestigiatore, nel sogno, nell’abbacinante contemplazione del vuoto che si apre dinnanzi agli occhi di un’anima spaesata, quella di Nathaniel Brown, che si distacca dal proprio corpo per immergersi in quello dei tanti altri attori incrociati cammin facendo: dalla sorella Linda (Paz de la Huerta), di cui spiamo morbosamente gli incontri sessuali, alle puttane e alle ammucchiate luminescenti come le insegne, le vetrine, gli intrecci di neon che rivestono di una seconda pelle spirituale i grattacieli giapponesi.
Dal corpo (di un cavallo, di un boucher, di un sodomita accecato dall’ira) all’esperienza psichedelica dell’allucinazione. Dal Rectum al Void, le temps détruit tout.