Ghost detainee – Il caso Abu Omar
Tra mistero italiano e spy story internazionale
Ghost detainee – Il caso Abu Omar, dal 5 febbraio al cinema
Il termine, nel suggestivo linguaggio tecnico-criptico dei Servizi segreti, è “Rendition“. Oppure “Extraordinary rendition”. Fa parte delle cosiddette Black Ops (chi ha visto lo splendido Soldado di Stefano Sollima, avrà già capito a cosa si allude), ovvero azioni messe in atto clandestinamente dalla Cia, su suolo straniero, per “estrarre” (alias prelevare, rapire) un personaggio gravato dal sospetto di terrorismo islamico, per quindi destinarlo o a prigioni gestite dalla Cia stessa, al di fuori degli Usa (Guantanamo docet), oppure a Stati che ne avrebbero disposto una detenzione dura, brutale, sorda ai diritti umanitari e con liceità di tortura. Fu nel corso di una di tali “Renditions”, che la mattina di lunedì 17 febbraio del 2003, Abu Omar, imam della moschea di via Quaranta a Milano, venne sequestrato da un gruppo di agenti della Central Intelligence Agency, caricato su un aereo e “reso”, infine, alle autorità egiziane, perché ne disponessero a son gré: come fecero, rinchiudendolo, buttando la chiave e sottoponendolo a un regime carcerario modello lager. Tra sevizie, torture assortite, fisiche e psicologiche, nonché privazione di cibo, il meno che gli capitasse era di sussistere tra torme di ratti fuoriuscenti dal cesso. La vicenda è così riassunta solo nelle sue coordinate essenziali: per tutto quello che le si addentella e che ne conseguì, quando i fatti vennero alla luce, deflagrando come un “caso”, scomodo e spinoso, il documentario Ghost detainee – Il caso Abu Omar, di Flavia Triggiani e Marina Loi rappresenta un lucido racconto/resoconto e una equilibrata sintesi. A beneficio e memento di chi c’era e qualcosa rammenta dei fatti di vent’anni fa, ma, soprattutto, per chi non c’era. A gettare questa sonda nell’Oceano di un tempo ancora prossimo all’11 settembre del 2001, allorché l’America aveva drasticamente alzato il livello dello scontro con il terrorismo di matrice islamica, ci hanno pensato le due autrici di punta del True crime italiano, virando stavolta su una spy-story in piena regola, non meno appassionante dei grandi delitti nostrani irrisolti, ma tale da aprirsi a scenari di maggior respiro: appunto le black ops, i maneggi della Cia, le manovre extra-legali, sbattendo infine anche contro il Segreto di Stato.
«Sì, questa è una storia più complessa, anche più controversa, anche più “scomoda”, rispetto alle vicende che avevamo indagato finora – spiegano le autrici. Quindi bisognava anche trovare l‘interlocutore giusto per poterla proporre. Perché è normale che se offri il caso di Lady Gucci, tutti lo vogliono. E l‘interlocutore giusto lo abbiamo trovato nella Iervolino e Bacardi Entertainment, tramite la società Ilbe. Diciamo che questa volta tocchiamo temi etici, anche rispetto ai diritti civili, che ci interessano molto, ma dentro al caso Abu Omar, che è una storia incredibile e magmatica, c’è tutto: l’azione, lo spy, il legal, ci sono i risvolti più crudi e violenti, c’è la tortura...». La Flair media production è la società che Marina Loi & Flavia Triggiani hanno creato per cimentarsi anche in nuove e diverse direzioni, senza dimenticare il True Crime (a metà febbraio sarà trasmesso su Sky Crime il loro docu Morte a Parma – L’ultima danza di Katharina sulla Miroslava) ma spaziando altrove: intrighi spionistici, storia del costume, biografie di grandi personaggi. E pensando anche a lungometraggi e serie tv, sia per il mercato italiano, sia per quello internazionale. Tornando al caso Abu Omar, il gran colpo messo a segno è stato il coinvolgimento del diretto interessato, Hassan Mustafa Osama Nasr, che ad Alessandria d’Egitto, dove oggi vive, ha rilasciato una lunga intervista e raccontato la propria versione dei fatti: «Abu Omar è tuttora attenzionato dai servizi segreti egiziani, che gli stanno, per così dire, dietro la porta. Quindi, non si poteva fare troppo movimento. Lui vive praticamente come un recluso e può spostarsi solo tra casa sua e il negozio di saponi che gestisce. Lo abbiamo intervistato per un giorno intero, insieme alla moglie, che, tra l’altro, ha accusato un mezzo malore durante questo incontro. “Oddio”, ci siamo dette, “adesso ci muore sotto gli occhi la moglie di Abu Omar!”. Questo per dire che il clima in cui vivono è ancora molto teso, la paura continua ad aleggiare», spiega Flavia Triggiani, che era riuscita a creare il contatto tramite l’avvocato milanese Carmelo Scambia, il difensore di Abu Omar: «Scambia era l’avvocato delle moschee milanesi, sia quella di via Jenner sia quella di Via Quaranta, di cui Abu Omar era stato imam. Ci ha fatto da tramite. Così, cominciammo a scambiare delle email e poi a fare delle videocall. Abu Omar aveva difficoltà a collegarsi da Alessandra d’Egitto, poteva farlo solo da piccole postazioni Internet pubbliche. Gli abbiamo raccontato cosa volevamo, perché noi siamo chiare sin dall’inizio, quando approcciamo gli intervistati: spieghiamo esattamente quello che vogliamo dire nel documentario, in modo tale che loro, sin dall’inizio, sanno perché entrare, accettando di essere on board con noi. E lui voleva testimoniare in prima persona le torture e voleva ribadire di essere innocente, perché Abu Omar continua a professarsi innocente. Sapeva che avremmo raccontato anche tutti gli altri punti di vista, che sarebbe stato un documentario equilibrato. Raccontavamo, quindi, anche la sua condanna, perché per l’Italia Abu Omar è un terrorista. E ha accettato. Tutto mediato dalla traduzione, perché lui non parla italiano, ovviamente. All’inizio ci scrivevamo in inglese, anche grazie al figlio, che abita in Italia e che ci traduceva le mail. Dopodiché, per l’intervista ci siamo affiancate un traduttore arabo».
Di qui, dunque, Abu Omar, e dall’altra parte, tra le molte voci, anche quella del generale Nicolò Pollari, allora alla guida del SISMI, finito sotto processo con altri agenti con l’accusa di avere agevolato l’azione della Cia su suolo italiano: sapeva? Non sapeva? Ha coperto? Non ha coperto? Nel documentario, Pollari dice quanto può, fino al limite invalicabile del Segreto di Stato, un muro innalzato anche nel corso dei procedimenti giudiziari e che impedì, nel suo caso e in quello di alcuni funzionari, di raggiungere il fondo dell’abisso. La Cassazione mandò assolti Pollari e compagni, nel 2014, ponendo la pietra tombale definitiva sull’affaire, per quanto li riguardava. Non mancano nell’inchiesta sulla Rendition di Abu Omar, dei tratti che non si sa se definire più inquietanti, grotteschi o surreali, a proposito dell’eccezionale disinvoltura con cui gli agenti americani impegnati nell’operazione seminarono dietro di sé tracce sensibili del loro passaggio, a cominciare dall’utilizzo di carte di credito per pagare le spese negli alberghi di lusso milanesi in cui erano scesi: dei James Bond cialtroneschi, come conclude qualcuno, oppure gente che pensava di andare sul velluto in un Paese in cui tutto era loro permesso? «Si sentivano coperti da una nazione alleata come l’Italia. Gli era andata sempre bene, del resto. Oggi è facile sostenere che fossero incompetenti. Però non è così scontato: nessuno poteva immaginare che sarebbero arrivati dei PM italiani che avrebbero fatto deflagrare la faccenda... ». Ghost Detainee – Il caso di Abu Omar è dunque il filo, come si sarà capito da tutte le precedenti premesse, per cercare di percorrere senza smarrirsi i meandri di un mistero italiano in piena regola, che si dipana dal nostro Paese attraverso l’Oceano, fino a Langley, e che va errando dall’Egitto alla Svizzera, alla Germania, altrettante tappe del viaggio investigativo del documentario di Flavia Triggiani e Marina Loi: « Quando ci chiedono: “Perché avete raccontato questa vicenda a vent’anni di distanza? Perché un mistero del genere non si può non raccontarlo attraverso un documentario. Oggi, oramai, il caso Abu Omar è storia. All’epoca lo si era raccontato ed era cronaca. Cronaca di un periodo in cui ancora si viveva nell’ondata emotiva dell’undici settembre. Oggi, quantomeno, sono state riconosciute le responsabilità. Negli Stati Uniti si è anche recitato il mea culpa sull’operato dell’America. Poi, è chiaro, che alcuni segreti, in Italia, ma anche in America, non usciranno mai allo scoperto. Diciamo che il nostro ha cercato di essere uno sguardo storico, più che investigativo, perché il segreto di Stato è stato apposto da tutti i governi italiani sulla questione Abu Omar e lì non c’è stata possibilità di fare luce. Noi abbiamo solo ricostruito una storia che ha dell’incredibile, che potrebbe essere, davvero, materia per un film».