Giorni di sangue
Il western maremmano di Enzo Gicca Palli
Giorni di sangue ovvero Zenda la ribelle (titolo di lavorazione) è una piacevole sorpresa nel vasto sottobosco dello spaghetti western. Sì perché, tutto sommato, di quel mood si tratta, con tutti gli stilemi connessi, nonostante la vicenda si ambienti in Italia, nella Maremma Toscana, alla fine dell’Ottocento. La trama ruota attorno a una maestra (Zenda, per l’appunto) la quale, dopo aver assistito a numerose ingiustizie perpetrate dal Conte Enrico Bardi a danno di poveri operai, si prodiga per convincere questi ultimi a reagire alle prepotenze subite e ad entrare in sciopero. C’è di mezzo anche l’uccisione di un buttero, fidanzato della giovane Ginetta (Giovanna Lenzi), sulla quale Bardi aveva delle mire. L’omicidio viene coperto dal Conte Padre, accumulandosi alle altre angherie dei latifondisti. Zenda può anche contare sull’appoggio di un giornalista, Walter, per indurre i butteri a sollevarsi. Tanto più quando Enrico Bardi, deciso a far sua Ginetta, provoca la morte anche di un bracconiere: il che innesca una violenta reazione a catena: appunto, i giorni di sangue del titolo… Il film di Enzo Gicca Palli, dallo stesso sceneggiato con W. A. Menchini e prodotto dall’Albinia Film di Alessandro Fedi, venne iniziato nel maggio del 1967, almeno stando a quanto dicono i documenti ministeriali, mentre secondo la testimonianza del protagonista Gianni Garko, le riprese avvennero in autunno. Si era, comunque, in pieno periodo di “furore” produttivo del western. E lo stile è esattamente quello: le musiche di Gino Peguri, il rumore degli spari, i costumi, le facce degli attori, degli stunts e dei caratteristi sono i medesimi che ricorrevano all’epoca nel genere. Cambiano solo gli sfondi, con la Maremma di quinta, ma anche qui i butteri ingaggiano scazzottate (in una taverna, anziché in un saloon) e sparano (poco) con pistole a tamburo, per difendere i propri diritti.
L’inizio è molto “musicale”, con atmosfere bucoliche, dominate da suoni di corni, a commento delle immagini di mucche maremmane (ben riconoscibili per le grandi e tipiche fogge delle corna) mentre si spostano da un recinto o da una prateria all’altra, dando persino l’impressione di essere un poco accelerate. Grace White (pseudonimo di Grazia Bianchi) è Zenda, Gary Hudson alias Gianni Garko è il reporter Walter, capitato per caso in quel territorio “caldo”. Gustavo D’Arpe interpreta il Conte Bardi padre, magnificamente doppiato da Michele Malaspina. Mentre l’infame Enrico, ovvero colui che scatena l’ondata di violenza nel villaggio per la sua prepotenza, è affidato a Dan Harrison ovvero Bruno Piergentili, belloccio e discretamente capace, più spesso protagonista in ruoli da buono, in film strani o di scarsa circolazione (come Indios a nord-ovest (1964), Sette pistole per El Gringo (1966) e Piluk il timido), qui doppiato da Gianni Musy. Una legione di altri attori/stuntmen/caratteristi come i fratelli Basile (Pat Basil–Pasquale Basile, che interpreta Celso, e Anthony Basil–Antonio Basile, come capo dei butteri, Sparviero), Pietro Torrisi, Fedele Gentile e Giovanna Lenzi ribadiscono che Giorni di sangue si proponeva come un’originale variazione sul tema dello spaghetti. Nel 1950 c’era già stato chi aveva tentato di mescolare butteri & cowboys in una pellicola poco nota, Buffalo Bill a Roma, scritto, prodotto e diretto da Giuseppe Accattino, con il pugile Enzo Fiermonte come protagonista.
Alcune sequenze di Giorni di sangue sono piuttosto eccentriche: a cominciare da quella di una festa all’aperto, in cui Enrico Bardi, con cappello a coppola, sullo sfondo, attende la cattura di un bracconiere, mentre la madre, la Contessa Bardi (Mara Berni, alla sua ultima apparizione cinematografica) intrattiene gli ospiti, tra i butteri e i villici. Pressoché tutti i personaggi principali sono presenti in scena (Zenda, Walter, Celso…), in primis il giovane conte Enrico che, una volta acciuffato il bracconiere, lo frusta davanti a tutti. Cosa non torna? Il fatto che, senza una giustificazione logica, Piergentili non venga mai inquadrato in faccia, anzi è ben evidente che si vuole tenere nascosto il suo volto. Al punto che, quando Zenda gli strappa dalle mani la frusta, la macchina da presa tiene la donna in primo piano, mentre sferra un colpo “in camera”, ciòè verso lo spettatore, per poi passare a un controcampo sul viso di Enrico, nascosto dalle mani, che, dolorante, ordina a Celso, il capo dei guardiacaccia (e anche suo vero padre), di uccidere Zenda, perché “Ha osato colpire il Conte Bardi”. Probabilmente, la scena fu risolta così per ovviare all’assenza di Dan Harrison che, per qualche ragione, quel giorno non stava sul set. Ipotesi rafforzata dalla sequenza immediatamente successiva, in cui Piergentili e Gustavo d’Arpe, allontanatisi dalla festa, parlano sotto un pergolato di ciò che è appena accaduto: e qui la regia non si preoccupa di non inquadrare il volto di Enrico, poiché quel giorno l’attore era presente.Durante la festa all’aperto, colpisce anche un primo piano di Mara Berni che, intuendo il pericolo incombente, poi effettivamente avveratosi, si volta per controllare la situazione: un modo di inquadrare che già nel 1968, sia per l’ottica utilizzata, sia per il formato non panoramico in cui venne girato Giorni di sangue, ci riporta al cinema d’altri tempi. Affascinante anche una sequenza in camera da letto, lussuosa e molto illuminata, della Contessa Bardi, che, senza alzarsi dal letto, ha un lungo colloquio con il marito, il quale, preoccupato per il comportamento del figlio, lo definisce addirittura “un bastardello”. Nella scena si apprezza un brano di stile settecentesco, al clavicembalo, che richiama la colonna sonora di un altro film, sempre commentato da Gino Peguri, dell’anno precedente: É mezzanotte… butta giù il cadavere, diretto da Guido Zurli. Altre curiosità della colonna sonora si ravvisano nella tragica sequenza finale presso il cancello della villa dove viene riutilizzato un brano musicale tratto da Perché uccidi ancora?, western con Anthony Steffen del 1965, ma partitura di Felice Di Stefano, che indirizza ancora più specificatamente in un clima da western all’italiana. L’utilizzo dei teatri di posa sembra minimo (la camera della Contessa, la taverna) mentre il resto degli ambienti, interni ed esterni, fa leva sulle location maremmane reali, che connotano questo esperimento di Gicca Palli, finito purtroppo nel limbo dei film perduti. L’epilogo, nonostante il carettere odioso di Enrico, ha un che di struggente, quando il personaggio, colpito a morte, invoca l’aiuto di Celso, capo dei fattori e suo vero padre.