Gli affari del Signor Diavolo
Appunti dal set del nuovo film gotico di Pupi Avati
Nessuno dei membri della troupe avrebbe mai presagito l’arrivo del temporale.Alle 7.30 di quella che era apparsa come una fresca mattinata di fine luglio, il cielo si è improvvisamente rabbuiato e grosse nuvole grigie hanno evocato la pioggia. Fitta e battente. Capace di durare per ore. Si è poi rivelata essere tutt’altro che la solita e passeggera perturbazione estiva. È forse un “battesimo”?Siamo alla fine di un afoso Luglio romano e il primo ciak de Il Signor Diavolo, il novo film “del gotico maggiore” diretto da Pupi Avati e tratto dal suo omonimo romanzo pubblicato da Guanda, viene battuto mente fuori dalla location prescelta infuria una strana tormenta. Una particolare congiunzione meteorologica capace di calare i tetri ambienti delle scene, oggi riguardanti i delicatissimi interrogatori, come in un tempo estraneo; una stagione lontana e permeata da un’aura di profonda e incessante inquietudine. Siamo come trasportati, di colpo, nella crepuscolare dimensione del “Paese d’ottobre”. Quella sorta di arcano tempo-zero, tanto caro al Ray Bradbury dei racconti e dei romanzi compiaciuti di sottili malinconie autunnali, mai così confacente all’oscura storia di provincia che da questo momento in poi verrà messa in scena nell’arco di circa due mesi di proficua lavorazione. Dalle feritoie nella claustrofobica stanza dell’interrogatorio, dove il coscienzioso giudice istruttore Malchionda (Massimo Bonetti) legge lo sgomento negli occhi di un gracile ragazzino convinto d’aver ucciso il figlio del diavolo, filtra una luce che non pare essere né di questa epoca né di questa stagione. Proprio mentre gli sforzi di tutte le maestranze sono convogliati nel ricreare, sul set, l’atmosfera più idonea a tale dinamica. Il Signor Diavolo, infatti, muove i suoi primi passi felpati nella provincia veneta degli Anni ’50. Racconta di rituali sacrileghi, della perdita dell’innocenza, di un cattolicesimo pre-conciliare inquinato dalla superstizione, di sagrestani che raccomandano ai bambini il massimo rispetto nei riguardi del cattivo per eccellenza. Il demonio. Chissà se questa pioggia non sia da ritenersi, in qualche modo, un segno… Se non costituisca già una sorta di innegabile indizio…Perché gran parte del cinema di Pupi Avati è costituito anche da tali e suggestive concomitanze.
Segnali tesi a manifestarsi autonomamente ed accompagnare, come un lungo strascico invisibile, i tempi di gestazione delle sue opere. Come la vecchia casa nella laguna che fu il set irripetibile e ideale de Le strelle nel fosso (1979); quelle pareti umide e già decrepite che il regista sfiorò e ringraziò profondamente a fine film. Come l’ambulanza d’epoca utilizzata nel prologo di Zeder (1983), che lo stesso Avati insieme con Cesare Bastelli (oggi direttore della fotografia) trovarono per caso, viaggiando in auto alla ricerca di un qualsiasi segno della Provvidenza. La pioggia di quest’ultima settimana di luglio è anch’essa una traccia. È simile al “battesimo” d’acqua torbida al quale l’inibito protagonista Furio Momenté (Gabriel Lo Giudice) non può affatto sottrarsi. Affondando i piedi nella larga pozzanghera d’acqua stagnante sulla Tiburtina Vecchia – in un passaggio del romanzo non inserito nell’adattamento cinematografico – mentre sta partendo nottetempo per indagare su quel nero fattaccio di superstizione e sangue accaduto nel cattolicissimo e lontano nord-est. Sono trascorsi quasi quarantatré anni da La casa dalle finestre che ridono (1976) ed Avati chiede al suo direttore della fotografia, già autore delle luci di quell’Arcano incantatore (1996) che seppe stregare la fervida fantasia di Guillermo Del Toro, di ricreare un perfetto e sinuoso gioco d’ombre. Desaturando. Smorzando i toni. Filtrando i riflessi attraverso le più ripide scale del grigio. Nero su nero. Avati fa sua una certezza che fu già di William Butler Yeats: “…se guardi a lungo nel buio, c’è sempre qualcosa”. Il risultato non può che essere, specialmente quando la macchina del fumo ricrea la nebbia, dei più riusciti. Dei più paurosi.
Alla fine del tremendo temporale non c’è un solo membro della troupe – dagli autisti dei mezzi tecnici ai ragazzi del reparto fotografia – che non abbia le scarpe fradice di pioggia. Sarà anche questa una pura coincidenza? Quando hanno inizio le scene della deposizione del piccolo Carlo Mongiorgi (Filippo Franchini), Avati chiede di riprodurre alle sue spalle un piccolo sbalzo di tensione elettrica. Per un istante c’è il buio. Proprio mentre l’impaurito bambino, incalzato dalle precise domande dell’uomo di legge, nomina per la prima volta Il Signor Diavolo. Oggi Avati gioca con le coincidenze, ed insieme col sistema nervoso dei suoi futuri spettatori, nella misura in cui le previsioni meteorologiche hanno sorpreso la troupe con lunghe ore di pioggia. Attraverso i più funzionali e repentini colpi di scena. Il luogo prescelto per le riprese è angosciante. Polveroso. Claustrofobico. È palpabile, percorrendolo o anche solo scrutandolo, tutta la sua lunga storia di antico luogo di dolore. Alcuni degli attori coinvolti racconteranno di aver patito una gran spossatezza alla fine di quelle scene. Una stanchezza cronica che, solo dopo qualche giorno di riposo, si è attenuta fino ad andar via. Sono forse gli effetti del clima del “Paese d’ottobre” l’ombra deforme e minacciosa di questo Signor Diavolo che la macchina da presa, muovendosi nello spazio angusto della stanza allestita, insegue tracciando nuove e complesse geometrie. Cercando quel particolare punto di vista o quel taglio dell’inquadratura capace di rivelare le presenze. Se è vero che il (signor) Diavolo si cela nei dettagli anche Antonio Avati, produttore e co-sceneggiatore del film, sa bene dove stanarlo. Perché alla sua attenzione non sfugge mai nulla. Dalla minuzia intelligibile alla complessità evidente.
Il suo modo di fugare le ombre è risolvere. Questo è il suo “esorcismo” quotidiano. Mirabile è lo sforzo mnemonico del piccolo Filippo Franchini. Capace di ripetere senza alcun indugio pagine su pagine di agghiacciante confessione. Già nel suo camerino, grazie alla presenza protettiva del padre, l’esordiente interprete dodicenne scelto da Avati dà prova di grande abnegazione. Intanto il make-up ha provveduto a renderlo emaciato e fragile, segnandogli le palpebre e le gote. I costumi di scena lo hanno reso più misero dinnanzi alla legge. Le mani del parrucchiere hanno sporcato i suoi capelli di sapone, simulando così una perenne lordura. Massimo Bonetti cerca di penetrare il suo infantile mistero con le armi della lucidità e le norme della terrena giustizia. Ma se il diavolo si cela spesso nei particolari, allora è ben più che assodata la sua “presenza” fra le molte pagine dei verbali che andranno a costituire l’imprescindibile apparato narrativo di questo particolare lungometraggio. La pioggia finisce prima dell’ora di pranzo. E dalle feritoie della stanza angusta si sente di nuovo il cinguettio degli uccelli. Il frinire delle cicale farà da sottofondo fino all’ultima inquadratura del programma di giornata. È ritornata l’estate. L’evocato “paese d’ottobre” cessa di attorniarci. Il primo solco è stato tracciato. Filippo Franchini viene struccato e riportato alla dimensione dei nostri giorni. Mentre Avati, prima di andar via dal set, scruta gli anfratti del luogo e già pensa alle inquadrature del giorno successivo. Il suo sguardo scruta nell’oscurità per cercare i confini di quell’intima dimensione nella quale ognuno è al cospetto dei traumi della propria infanzia. È il dogma assoluto di H.P. Lovecraft, secondo il quale la più antica e potente emozione umana è la paura. Ed i bambini, di ogni epoca, etnia ed estrazione, avranno sempre paura del buio. Per fortuna…