Gotico padano
Sulle tracce di Buono Legnani, il pittore delle agonie
Gotico padano – Sulle tracce di Buono Legnani il pittore delle agonie, titola il film codiretto da Roberto Leggio e Gabriele Grotto, che inizia a febbraio il suo percorso di diffusione. Dichiarando subito in quale matassa aggrovigliata di spaventi e misteri ci si sia voluti addentrare, a quasi una cinquantina d’anni, ormai, da quando Pupi Avati face venire la pelle d’oca a più d’uno con La casa dalle finestre che ridono. Che persiste nell’immaginario e fomenta proselitismi ossessionati, non solo nel fandom, se è vero come è vero che un regista italiano di altissima caratura almanaccava lo scorso anno di realizzarne un remake, fin qui saltato, purtroppo, per motivi di vile pecunia legati alla cessione dei diritti. Leggio, qualche tempo fa, aveva già lasciato dietro di sé la notevole impronta di Il mistero di Lovecraft, Road to Hell (codiretto con Federico Greco), ipotizzando, nella forma di un mockumentary, della venuta in Italia del Solitario di Providence, alla ricerca di materia ancestrale per i propri scritti. «Questo perché nella mia terra – spiega Leggio, oggi stanziale a Roma – in Veneto, esistono tantissimi miti che derivano dall’essere stati noi conquistati, secoli e secoli fa, dai Celti. Da noi ci sono gli Gnomi, che altrove in Italia non ci sono: ci sono le Anguane, spiriti dell’acqua, che possono essere cattive o buone, connesse alle antiche Lamiae greche». “Film” si è detto, questo nuovo Gotico padano, ma anche in questo caso l’intrecciarsi di realtà e finzione, di cronaca e slittamenti fantastici, propaga la formula che fu già di Road to Hell. A fondamento del discorso non più gli orrori galattici e teratomorfi che fondarono l’Olimpo di Chtulhu nella testa di Lovecraft, ma l’immanente e altrettanto agghiacciante figura di Buono descritta da Avati, il pittore maledetto dalle cui vene uscivano i colori caldi come il sangue, lisci come serpi, profumati di agonia. «La gente è rimasta talmente impressionata da questa storia che ha creato, a sua volta, il mito che Buono Legnani sia veramente esistito. Gotico padano si sviluppa da tale premessa come un crossover di generi: è un documentario ma allo stesso tempo non lo è; è un film horror, ma non lo è...», dicono i due registi, che mettono se stessi al centro della narrazione, all’inizio: vanno sui luoghi che Avati e la sua troupe usarono come sfondi paesistici, ne ripercorrono le tracce come usano fare i cacciatori di location: qui è dove Capolicchio sbarcava dalla chiatta; là è dove Coppola o Solmi compivano la tale azione o pronunciavano quella certa battuta…
Grotto racconta che proprio da un suo location-tour era nata l’idea: «Pochi giorni prima di incontrare Roberto, su proposta di un mio amico musicista, Marco Ronzani, ero andato a fare un “pellegrinaggio” nei luoghi in cui il film era stato girato. In una giornata percorremmo tutte le tappe, calandoci in quella atmosfera che c’è in questi posti della Bassa Padana, a Rovigo e nel ferrarese, al di là dell’aspetto cinematografico, tra l’inquietante e il malinconico. Questa esperienza ha dato il via a Gotico padano… Un film/documentario, che all’inizio non sapevamo nemmeno noi bene cosa sarebbe stato. Avevo messo nero su bianco l’esperienza avuta col mio amico musicista, con le tappe fondamentali di quel pellegrinaggio e quello che era accaduto. E sembrava già una sinossi. E da lì io e Roberto siamo partiti, non seguendo questa trama embrionale, ma semplicemente tornando in quei luoghi e vedendo cosa succedeva. Quindi, lo abbiamo sviluppato facendolo, come un work in progress. E grazie a contatti che, spesso casualmente, ci arrivavano in questo viaggio, trovavamo altre direzioni nuove in cui muoverci». Del corpus documentaristico fanno parte le interviste a specialisti che storicizzano e contestualizzano, esegeti del cinema di Avati e di quel genere nero, molto specifico, che in Italia fu solo suo e che non tollera paragoni con il resto dell’horror. Fino a spostare il discorso e il focus su quel substrato che afferiva alla remota cultura contadina dei racconti che impregnarono il regista da bambino – la polla gorgogliante del mito, di nuovo – e da cui balzò fuori Legnani, il pittore di agonie, insieme al prete versipelle. Ma davvero Buono era solo un mito? Nell’indagine si vanno insinuando ipotesi inquietanti, tramite certi oscuri accenni strappati di bocca a gente di quei luoghi e poi, soprattutto, nelle parole di una studiosa di leggende polesane, l’antropologa Valentina Baraldi, che rivela di avere scoperto la storia di un bimbo, di cognome Lesagni, che insieme alle due sorelle era stato internato in un manicomio, che amava disegnare e sporcarsi con i colori che usava: «Il manicomio infantile di Aguscello esisteva veramente – racconta Leggio. Venne chiuso perché c’era stato un incendio. Dicono che ci furono dei morti, ma non li hanno mai trovati. In questo edificio non ci si può entrare e tutto l’incartamento relativo ai fatti è custodito, in modo anche misterioso, dalla Croce Rossa della zona di Ferrara, che non ci ha dato alcun permesso. Noi, comunque, ci siamo entrati di straforo. E non abbiamo ricreato niente. Abbiamo semplicemente ripreso...».
La quota di fiction disseminata ad arte in Gotico padano non fa che illustrare questi frammenti di un passato che getta ponti verso la possibilità di una trama reale all’interno del tessuto mitico che il film di Avati ha concretizzato sullo schermo. Già, Avati. Anch’egli rende testimonianza della propria opera, in quel modo, pacato, ceroso e conviviale, che non va esente, tuttavia, dal sospetto di non sputare mai completamente “il rospo”: «Quando io e Gabriele abbiamo intervistato Pupi, lui ci ha detto proprio di essere cresciuto con la “cultura della paura”. E torniamo così all’humus che sostanzia le “leggende” della civiltà contadina, percorse costantemente da fremiti terrorizzanti, che muovono sempre lungo quel confine incerto tra il residuo mitico di antichissime ere e la deformazione di una storia vera e più prossima. Anch’io sono cresciuto in quella temperie, che è propria delle nostre zone, tra il Veneto, Ferrara, la regione del Nord-Est italiano... Narrazioni come I racconti del filò, tanto per dire, da cui già avevo perso spunto per Il mistero di Lovecraft». Non poca parte, in Gotico padano, la giocano i cultori del film di Avati, cioè quei personaggi che hanno innalzato La casa dalle finestre che ridono a oggetto di venerazione, se non addirittura di culto bordeggiante il fervore religioso, e che seguiamo nei loro percorsi lungo le coordinate geografiche in cui agivano Buono Legnani e le figure a lui associate, alla ricerca di qualcosa da accaparrarsi e custodire a mo’ di reliquia connessa al film. Un fenomeno che accomuna l’universo del fandom mondiale, si obietterà, ma che nel caso di specie ha dei tratti davvero peculiari: «Sono tipi umani pazzeschi, che arrivano a punte di ossessione incredibili. La paura che il film gli ha fatto provare, è come se la volessero perpetuare all’infinito. Questo concetto viene espresso anche da Pupi Avati nella nostra intervista, quando parla della compulsione a raccogliere il materiale, il concreto, per fissare l’immateriale, l’astratto, cioè quell’emozione profonda che la visione della Casa dalle finestre che ridono ha procurato». Gabriele Grotto traccia un parallelo interessante tra la tessitura narrativa del film di Avati e la struttura che il loro docufilm è andato assumendo: «Perché La casa dalle finestre che ridono comincia in modo piano, accompagnando l’arrivo di Lino Capolicchio in loco, con uno sguardo quasi da viaggiatore turistico e poi va man mano complicandosi nell’azione. E anche Gotico padano ha cercato un po’ di seguire uno sviluppo simile, con l’approccio documentaristico iniziale su cui abbiamo poi innestato altre cose, fino ad arrivare alle ricostruzioni di fiction della parte finale. Il borderò è stato un po’ quello, anche se compositivamente Gotico padano si è andato formando grazie a un amalgama di scrittura, pensiero e azione». La fusione di questi vari livelli di racconto che nella parte finale va rovesciando le disseminate inquietudini dentro una ricostruzione immaginaria, da film d’angoscia (più che semplicemente horror: né più né meno di come accadeva nell’epilogo di Road to Hell), pone Gotico padano in una sfera eccentrica rispetto al classico documentario monografico da un lato e al mockumentary dall’altro. E i travagli compositivi che hanno accompagnato la messa in opera del lavoro di Leggio e Grotto (cominciato nel 2019, interrotto per la tragica scomparsa del fratello di Gabriele Grotto che faceva parte anch’egli del progetto e ulteriormente stoppato a causa della subentrante pandemia), rendono ancora più encomiabile che si sia arrivati a questo risultato finale.