Halloween: la storia della saga – Prima parte
Quarant'anni di Michael Myers
Laddove l’incertezza regna sovrana, il sommo D’Annunzio ci ha insegnato che è sempre cosa buona e giusta abbeverarsi alla fonte, suggere dalla mammella da cui è scaturito il fertile latte primigenio. Ogni mito possiede la propria terra fondativa, e la leggenda che a noi qui interessa insinua le proprie robuste radici nel lontano 1978, quando un rampante cineasta di appena trent’anni di nome John Carpenter, con all’attivo “solo” due piccoli gioiellini come Dark Stars e Distretto 13: Le brigate della morte, decise, assieme alla compagna di merende e sceneggiature Debra Hill, di rivoluzionare in un sol colpo forma e sostanza di quel maledetto e amato genere che fu l’horror. Quel pazzerello cinefilo dalla fluente chioma nera e dai folti mustacchioni corvini, nel presentarsi con il proprio script – originariamente intitolato The Babysitter Murders – alla corte dell’amato/odiato produttore siro-americano Moustapha Akkad sfoggiando un sincero amore per la celluloide, mai avrebbe immaginato che la sua creatura, per il momento ancora incatenata fra le robuste fibre della carta, avrebbe dato origine a una delle saghe più celebri del grande schermo, capace, nel bene e nel male, fra alti e bassi, di cavalcare oltre quattro decenni e unire almeno due generazioni di amanti dei brividi forti, consegnando all’immaginario collettivo uno dei villains più iconici di ogni tempo. Ma procediamo con ordine; 1978 dicevamo. Il cinema “de paura” non era certo nuovo a tipacci fuori di cotenna che, opportunamente occultati e ben forniti di oggetti contundenti, se ne vanno a zonzo a tagliuzzare chiunque gli capiti a tiro. Ma non appena la sequenza di apertura di Halloween – La notte delle streghe, preceduta da un’inquietantissima filastrocca in voce over su fondo nero, illumina col suo fioco lume la candida superfice dello schermo, ci si rende subito conto di star assistendo a qualcosa proveniente da un altro mondo. La fluidissima e ansimante soggettiva di un bimbo mascherato – realizzata in piano sequenza con un’apocrifa steadycam ante litteram – se ne va in giro per i meandri di una villetta, fermandosi a contemplare le nude grazie dell’acerba sorella intenta a darsi da fare col bel fidanzato. Tutto più o meno normale fin qui, no? Nulla più che l’innocente scoperta della freudiana “scena primaria” da parte di un ingenuo pargoletto. Ma quando una candida manina spunta dal nulla impugnando un coltello, ecco che le cose iniziano a mettersi davvero male, e di lì a poco un inaspettato fratricidio verrà apparecchiato dinnanzi agli esterrefatti bulbi oculari dell’incauto spettatore. Il nostro imberbe killer (per il momento non ancora serial) è il piccolo Michael Myers – vero nome del distributore europeo di Distretto 13 –, presto internato in un manicomio criminale per ben quindici anni sotto la supervisione del dottor Sam Loomis (Donald Pleasence).
Ma, si sa, gli spiriti audaci sono duri a morire, e così, alla vigilia della fantomatica Notte delle Streghe, l’ormai maturo pazzoide (incarnato dallo storico Nick Castle) se ne scappa dalla casa di cura, scippa la proverbiale maschera bianca – rielaborata sulle fattezze del capitano Kirk di Star Trek – che lo consegnerà all’Olimpo degli incubi e se ne ritorna nei ridenti sobborghi di Haddonfield, la propria cittadina natale. Qui, conseguendo a pieni voti la meritata laurea in ammazzamenti seriali, incrocia le sorti della sfortunata babysitter Laurie Strode (Jamie Lee Curtis), la quale sarà l’unica sopravvissuta di un’autentica mattanza perpetrata nel giro di una sola notte e dalla quale il nostro assassino di fiducia ne uscirà, seppur ben acciaccato, vincitore, scomparendo nel nulla dopo un apparentemente fatale salto carpiato out of the window. I giochi sono tutt’altro che chiusi e l’incubo è solo all’inizio. Confezionato in appena venti giorni di riprese con un budget di poco più di 300 mila dollari, Halloween porta nelle casse della piccola Compass International Pictures la discreta sommetta di ben 70 milioni, divenendo una delle pellicole indipendenti di maggior successo della storia del cinema e incuneandosi a forza nelle pupille e nei cerebri di milioni di spettatori in tutto il mondo, anche grazie a un inquietantissimo martellante score di percussioni composto dallo stesso Carpenter sotto pesante influenza dei Goblin di Profondo Rosso. E dire che le premesse non erano state delle migliori, soprattutto sul fronte del casting, con il ruolo del dottor Loomis rifiutato da ben due star del calibro di Christopher Lee e Peter Cushing, oltre ai numerosi dubbi attorno alla giovanissima Jamie Lee, proveniente dal sottobosco televisivo e con in tasca la sola fama degli illustri genitori Tony Curtis e Janet “Psycho” Leigh. Ma quando le cose devono andare per il verso giusto, indipendentemente dai venti contrari, il Fato è sempre pronto a fare il proprio lavoro, ed è così che, dopo aver ipotecato un inaspettato successo con un romanzo derivato – scritto da Curt Richards e pubblicato nel 1979 dalla Bantam Books– e sbrogliata una discutibile cessione di diritti televisivi alla NBC – con l’aggiunta di 12 minuti di girato, in seguito integrati dalla Anchor Bay nella ghiottissima edizione DVD del 2001 Halloween: Extended Edition –, la creatura partorita da Carpenter e dalla Hill si prepara a seguire il proprio corso naturale con il primo sequel ufficiale Halloween II – Il signore della morte (1981), deciso a riprendere le fila del discorso da dove tutto si era concluso, con il redivivo Michael Myers (Dick Warlock) intento a rintracciare la povera Laure – che si scoprirà essere, spoiler alert, nientemeno che sua sorella! – direttamente nella clinica ospedaliera nella quale la giovane era stata portata dopo lo shock seguito alla nefasta notte d’Ognissanti.
Con Carpenter immerso con un piede nello shooting di Fog e l’altro nello script del cultissimo 1997: Fuga da New York, la regia viene affidata all’esordiente Rick Rosenthal – il futuro padre di Bad Boys –, il quale dirige con discreto mestiere una pellicola che, pur ricalcando la struttura chiave dello slasher originario, qui si muove su un versante decisamente più splatter, con uccisioni particolarmente truculente e una dose di violenza nettamente superiore. Senza alcuna infamia e senza alcuna lode, i 25 milioni di incasso complessivo mettono tranquilli i capoccia della Universal – che avrebbero addirittura voluto optare per il 3D –, originariamente spaventati dai numerosi rimaneggiamenti della sceneggiatura in corso d’opera ideata dalla coppia Carpenter-Hill e alla fine convintisi a novellizzarla grazie allo scrittore Jack Martin (aka Dennis Etchison). Come purtroppo molto spesso accade con le galline dalle uova d’oro alle loro covate primigenie, si è spesso tentati di spremere la linfa vitale di un’opera quando ancora il succo deve opportunamente formarsi, rischiando di rovinare in partenza ciò che potrebbe invece avere una vita lunga e gloriosa.
Ed è proprio quello che stava rischiando di accadere con Halloween III – Il signore della notte (1982), primo discusso sequel apocrifo della storica saga, fortemente voluto dal duo produttivo Akkad-Yablans ma scetticamente sostenuto dai suoi stessi creatori, i quali decisero di prendere parte al bislacco progetto in qualità di co-sceneggiatori e produttori esecutivi a condizione che la narrazione fosse totalmente distaccata dai due capitoli precedenti. E in effetti la vicenda diretta da Tommy Lee Wallace – già scenografo e produttore del capostipite e rifiutatosi di prendere il timone della precedente pellicola – non ha assolutamente nulla a che vedere con l’epopea ammazzatoia di Michael Myers, mettendo invece in scena la battaglia di un medico (Dan O’Herlihy) e di una donna comune (Stacey Nelkin) contro un malefico scienziato pazzo (Tom Atkins) celato nei meandri di una goticheggiante fabbrica di giocattoli nel corso della settimana che precede la beneamata festa d’Ognissanti. Fra improbabili culti druidici (sic!) e incursioni di altrettanto improbabili automi meccanici, la pesante mano sci-fi dello scrittore Nigel Kneale si fa sentire, gettando un bel po’ di casino nel già troppo eterogeneo calderone produttivo/distributivo nel quale Carpenter e socia si trovano a battibeccare nientemeno che con Dino De Laurentiis, cercando di salvare per il rotto della cuffia quello che sarà ricordato come il peggior capitolo della saga fino a quel momento.