Il bacio della pantera di Jacques Tourneur
L’inquietudine del non-detto
Io amo il buio; è fraterno. (Simone Simon)
Se si parla de Il bacio della pantera (1942), non possiamo non introdurre prima di tutto la figura quasi mitologica di colui che ne fu il produttore, Vladimir Ivan Leventon, in arte Val Lewton. Nato in Russia ma trapiantato in America, Lewton fu il nipote di Alla Nazimova, famosissima attrice e regista, nonché animatrice di salotti letterari. Nata da famiglia ebraica ucraina, negli anni Dieci e Venti del Novecento, divenne una fra le più celebri ed influenti dive di Broadway e di Hollywood, il cui nome è inoltre legato indissolubilmente alla figura di Rodolfo Valentino. Lewton lavorò inizialmente come pubblicista, assistente e story editor di David O. Selznik, collaborando da ultimo alla scrittura di quello che si sarebbe imposto come uno fra i maggiori colossi cinematografici di sempre – ci riferiamo a Via Col Vento. Nel 1942, fu eletto responsabile del reparto B della casa di produzione RKO Pictures, nota universalmente per il logo di apertura dei film (il globo terrestre con in cima la torre radio), così come per il logo di chiusura (il triangolo attraversato da una saetta). Nel reclutarlo, la RKO intendeva risollevarsi principalmente sotto il profilo economico; per questo motivo commissionò a Val Lewton la realizzazione di una sequela di film horror a budget ridotto, della durata massima di 75 minuti, ognuno dei quali non avrebbe superato la soglia dei 150.000 dollari. Più che esibire mostri o creature orribili, queste pellicole avrebbero messo al centro paure invisibili o recondite, così da turbare ancora più in profondità la psiche degli spettatori. La prima di queste produzioni è appunto Cat People, da noi conosciuto come Il bacio della pantera (“Baciami e ti graffierò a morte!”, recitava la vecchia locandina). Il regista scelto per dirigerlo, Jacques Tourneur, altro immigrato – francese, in questo caso – naturalizzato statunitense, era figlio del regista Maurice Tourneur, tra i fondatori della Motion Picture Directors Associations (l’attuale DGA). Per Lewton, Jacques Tourneur girerà ancora gli horror Ho camminato con uno zombie e L’Uomo leopardo, licenziati entrambi nel 1943. Il racconto di Cat People ha inizio allo zoo di Central Park. In una domenica pomeriggio, un architetto navale di bell’aspetto, Oliver, si imbatte per caso in una donna piacente, intenta a ritrarre una pantera.
Costei è la giovane Irena (l’avvenente Simone Simon, qui citata a inizio articolo), disegnatrice di moda originaria della Serbia. (Osserviamo riemergere, in tale frangente, il fattore migratorio che lega le storie personali sia del produttore che del regista del film.) Lo svolgersi del suo quotidiano sembra essere concatenato all’insorgere di un’atavica maledizione, di natura superstiziosa, congiunta al patrimonio spirituale e culturale del paese di montagna di cui Irena è originaria. Un tormento che la indurrebbe ad assumere le sembianze e la ferocia felina di una pantera nera ogni qualvolta si trovi a provare stati di rabbia, passione o gelosia. O così pare. In breve, i due protagonisti si uniscono in matrimonio, ma il problema di Irena si ripercuoterà sulla sua capacità di amare il marito come vorrebbe o dovrebbe. Un frustrante impedimento che è poi indotto da quella che può essere letta come una forte repressione sessuale, quindi sublimata attraverso la trasmutazione di cui sopra. La sua storia con Oliver è l’unico percorso possibile per indurla fuori da una realtà messa in ombra dalla maledizione. Frattanto, in preda alla costernazione, l’uomo si confida con Alice – la bella assistente che per lui ha una cotta segreta -, riportandole i problemi coniugali con Irena. Alice gli consiglia di sottoporre la moglie alle cure di uno psichiatra, il quale impiegherà su di lei il metodo dell’ipnosi. Per Irena, la figura di Alice si trasforma presto in una minaccia; la sua crescente gelosia, tuttavia, non fa che spingere Oliver verso la sua rivale. A questo punto, quella che inizialmente sembrava essere solamente un’affabile e riservata disegnatrice di moda, non vede altra soluzione se non quella di sprigionare tutta la sua ferocia animalesca. Il bacio della pantera incorpora in sé almeno due scene fondamentali. La prima si svolge all’interno di una piscina al chiuso, le cui increspature gettano inquietanti e splendidi riflessi sulle pareti. Alice sta per immergersi nell’acqua, ma la sua apparente tranquillità è minata dal riecheggiare di strani versi e rumori di sorta. Alice si guarda intorno, ma non vi è l’ombra di niente e di nessuno. Colta da un moto di paura, inizia a strepitare e a reclamare aiuto, allarmando il personale della piscina. L’altra scena è quella del pedinamento notturno compiuto da Irena ai danni di Alice. I tacchi delle due giovani donne irrompono nel silenzio notturno, solcando vivamente la strada deserta (il suono della camminata ghermisce l’attenzione dello spettatore).
Emerge qui un’estetica cinematografica che lascia ancora oggi ammutoliti, tanta è la superba prepotenza visiva che da essa trabocca. Il tono crepuscolare sembra intessere un legame con una tradizione che va dall’espressionismo tedesco alle ambientazioni in chiaro-scuro del vecchio e suggestivo cinema giapponese. Alice percepisce di essere seguita, ma dietro di lei non sembra esserci nessuno. Allo spettatore viene venduta l’idea che stia per succederle qualcosa di orribile, o che Irena attui la sua trasformazione e la riduca a brandelli. La sensazione si rafforza istante dopo istante, sino a che, nell’acme del pathos, non udiamo un ruggito bestiale confondersi con il trambusto cacofonico del motore di un pullman, che appare improvvisamente sulla scena spalancando le porte ad Alice per farla salire. Convogliandola nel contesto cinematografico della suspense, a Lewton e alla sua squadra di produzione si conferisce il merito di aver introdotto la cosiddetta “tecnica del bus” (“Lewton bus”), che servirà da ispirazione per il thrilling a venire. L’impiego della luce, fondamentale, rende poi favorevole l’assimilazione dell’atmosfera della pellicola, provocando una maggiore identificazione con i personaggi. Tourneur fa sfoggio di un’arte della suggestione atta a inculcare nello spettatore un terrore che invero non deriva dal palesarsi d’immagini violente o sanguinolente, bensì dal manifestarsi del timore, sviluppato dallo spettatore stesso, che queste possano incombere. Uno stile la cui tensione non si regge tanto sulla fabbricazione tecnica dell’azione, quanto più sull’attesa di ciò che sta per succedere. Il film, negli anni divenuto un cult da cineteca, riscuoterà un grossissimo successo (4 milioni di incassi a fronte di un budget da 134.000 dollari), permettendo a Lewton di realizzare i suoi lavori successivi dando libero sfogo a una peculiare visione personale basata sul muovere tematiche sinistre e di ambivalenza esistenziale. Il suo talento sarà riconosciuto da molti registi, tra questi Martin Scorsese, che nel 2007 ha dedicato a Lewton un importante documentario (Val Lewton: The Man in the Shadows).
Dario Argento lo ha definito, in anni ancora più recenti, un genio trasversale, essendo stato Lewton un talento della sceneggiatura, della scrittura e insieme della produzione. L’influenza de Il bacio della pantera sul lavoro del Maestro del Brivido nostrano è in ogni caso lampante ed emerge particolarmente in Suspiria, ove è ripresa l’ambientazione e l’atmosfera ansiogena della piscina, e a ben guardare anche la camminata del pedinamento (precisamente quando Sarah segue i passi di Miss Tanner, la mitica Alida Valli, mentre questa si addentra nelle stanze segrete delle streghe). Il lavoro di Tourneur verrà reinterpretato nel 1982 dal regista Paul Schrader, con trovate tecniche di livello, seppur con differenze rilevanti – ma non è un male – rispetto all’originale. Prodotto ancora dalla RKO, il remake ospita nel cast la sensuale Nastassja Kinski e un Malcolm MacDowell ancora alle prese con una confusionale carriera post-Arancia meccanica. Il nome della protagonista è sempre Irena (interpretata, appunto, dalla Kinski), ma non è più un’immigrata serba, bensì una turista canadese giunta a New Orleans per ricongiungersi con il fratello (McDowell) che non vede dalla morte dei genitori. Sullo sfondo vi è ancora la maledizione, di cui Irena sembra però essere aliena. Il brano portante in colonna sonora è “Cat People (Putting Out Fire)” di David Bowie, composto insieme a Giorgio Moroder. Il brano sarà inciso nuovamente da Bowie per essere inserito nella tracklist di uno dei suoi album più commerciali, Let’s Dance, del 1983. Schrader, dal canto suo, proseguirà il suo percorso estetizzante mettendo coraggiosamente in scena la vita del superbo narratore giapponese Yukio Mishima (con Mishima – Una vita in quattro capitoli, del 1985), sintetizzando in quattro momenti fondamentali l’esistenza dello scrittore.