Il continente Asia Argento
Asia Argento racconta senza complessi la sua (ex?) carriera cinematografica come attrice
È notizia di un paio di giorni fa che Asia Argento, nel contesto del Giffoni Film Festival dove era stata invitata per ricevere il premio Experience Award, ha in un certo senso abiurato alla sua carriera di attrice. «Ero diventata una mestierante, non sceglievo più per la qualità». L’autodafé è proseguito in questi termini, lucidi e spietati: «Come attrice non sono mai stata ambiziosa e penso neanche di talento. Credo mi scegliessero solo per la forte personalità. I ruoli però non sono camicie che ti togli facilmente. Il personaggio che mi ero attaccato addosso si era mangiato la vera io. Ora non mi farò più etichettare». Con una nuova pettinatura che le acconcia i capelli corvini con un bel taglio corto, giovanile, più donna francese che femmina mediterranea, ma spaventosamente conturbante come sempre, Asia si è lasciata andare a considerazioni critiche anche verso i ruoli da prostituta che spesso ha interpretato: «L’ha fatta in tutte le variazioni possibili immaginabili. Ma ora non interpreterei neanche Madre Teresa. Facevo l’attrice soprattutto perché volevo dimostrare di essere diversa, di essere qualcuno, ma ho capito che un attore non è un artista, ma uno strumento. E ho smesso di cercare di piacere a tutti». Ci siamo detti che questa era l’occasione giusta per andarsi a rileggere che cosa ci raccontava la divina Asia un po’ di tempo fa, in una serie di interviste che facemmo con lei tra il 2007 e il 2011, e che confluirono in forma compendiaria nel dossier Scream Queens nr. 2.
Cronologicamente, tu vieni alla luce mentre tuo padre sta girando Suspiria, giusto?
Sì, sono nata durante Suspiria, anzi qualche mese prima che lo facessero, quindi i miei genitori l’hanno scritto mentre mia madre era incinta. E avevo cinque anni quando mio padre ha fatto Inferno. Ho visto Suspiria, per la prima volta, a sei anni, e Inferno poco dopo. Sono state le favole con cui sono cresciuta: sono film che ho visto centinaia di volte, probabilmente, e li facevo vedere a tutti i miei amici. Ma non li ho mai considerati film d’orrore, cioè mi spaventavano, però erano veramente simili alle favole che non mi raccontavano i miei genitori; quindi vedere i film di mio padre – questi due, in special modo, sono i miei preferiti – era un po’ come ascoltare Hansel e Gretel o Biancaneve, con quelle streghe terribili…
Se ne deduce che hai, quasi per dna, una predilezione per la parte squisitamente fantastica del cinema di tuo padre…
Non è mio compito definire i film di mio padre, metterci delle etichette e neanche i film di nessuno, a dir la verità; non mi piace definire i film di mio padre “horror”, semplicemente “horror” o “gialli”. Io trovo che abbiano a che fare col profondo, con l’arte, con la psicanalisi, con tanti aspetti… è un po’ riduttivo cercare di definirli con un etichetta e basta. Poi, mio padre è un “illuminato”, ha tantissime informazioni, ma soprattutto ha un rapporto molto profondo col suo io più oscuro, che gli parla attraverso i suoi film e lui lo lascia parlare. Tutti mi chiedevano, quando ero piccola: «Ma è vero che tuo padre si ispira ai sogni per scrivere i suoi film?». Non sono tanto i sogni di notte – magari anche qualche sogno di notte… ma come diceva Edgar Allan Poe, «chi sogna di giorno vede molte più cose di chi sogna di notte», quindi i suoi film sono quasi inconsci. Poi, la paura è un’emozione che al cinema è molto calcolata, è quasi aritmetica: la macchina si deve avvicinare a questa andatura e il personaggio si deve girare in quel momento per fare spavento, se fai un secondo dopo o un secondo prima non funziona; è qualcosa che, però, senti. Secondo me, mio padre è un uomo che ha molta paura, di tante cose nella vita, per questo riesce a raccontare così bene questo sentimento. E poi, proprio perché i suoi film sono quasi inconsci, cioé escono da quel luogo oscuro dell’anima di mio padre, che lui chiama “la macchia nera”, riescono a toccare nell’inconscio molte persone, perché parlano direttamente: non ci sono cose costruite, sono film estremamente onesti.
Sei figlia di due persone che hanno lo stesso nome, Dario e Daria: c’è una suggestione quasi cabalistica dietro questa coincidenza…
E pensa che avevo anche dei nonni che si chiamavano Fulvio e Fulvia. Infatti, io sono solita dire che per me sarà un problema trovare il mio Asio (ride)…
Ma nella tua famiglia esiste questa magia dei nomi; che si riflette anche nel cinema di tuo padre…
Sì, è vero. Spessimo ritorna il nome Sara, come anche Anna. Mio padre chiama spesso i personaggi con questo nome. Forse nasce dal fatto che avrei dovuto chiamarmi Sara. Cioè, mi volevano chiamare Asia, ma all’anagrafe, al principio, dissero che non era possibile, e quindi mio padre e mia madre furono per un certo tempo indecisi fra Aria e Sara.
Sara è anche il nome della protagonista di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa. Un film – lo hai ripetuto tante volte – che ti appartiene in maniera “viscerale”…
Sì, io non credo che riuscirei mai a dirigere un film da mestierante, come se guidassi un taxi. Magari posso farlo recitando, da attrice, perché uno si può comunque creare un habitat da solo e cercare di non imbarazzare se stesso; ma dirigere un film, sentirlo proprio tuo, se scritto da qualcun altro, mi sarebbe impossibile. In America mi è capitato che mi offrissero dei copioni da dirigere, ma non me la sono sentita, perché non ne sarei capace. La regia è una questione molto importante, devi stare molto attento: altrimenti è meglio recitare e basta. È più comodo.
Quindi potresti accettare anche dei lavori “mercenari” per quanto riguarda la recitazione?
No, non arrivo a dire questo. Devo comunque “sentire” il regista o il copione o il personaggio. Deve esserci qualcosa, se non c’è nulla, non posso. Ho fatto una volta un film così, non voglio dire quale, e sono stata malissimo. Quindi non lo farò più.
Avevi 23 anni quando hai girato il tuo primo film da regista, Scarlet Diva. Ingannevole… l’hai diretto a 28 anni: il tuo linguaggio cinematografico si era evoluto nel frattempo…
Ingannevole è il cuore più di ogni cosa era una storia diversa rispetto a Scarlet Diva e quindi richiedeva un tipo di linguaggio diverso. Tutti mi hanno detto che ero maturata come regista. Nel frattempo avevo visto tanti film, avevo vissuto tanto, avevo avuto una figlia, erano successe molte cose. Quindi ero sicuramente maturata come persona. Però era anche la storia ad essere diversa e quindi richiedeva un linguaggio differente.
Scarlet Diva era tutto concentrato su di te, esprimeva un’esigenza, forse, di maturazione di una ragazza, in Ingannevole tu scegli una cosa più complicata, perché oltre al tuo ruolo di madre devi anche occuparti di un bambino e cerchi di trasmettere allo spettatore quel che prova un bambino…
Mi colpirono molto queste critiche, di avere fatto un film egocentrico. Quando mi facevano questo tipo di obiezione, che Scarlet Diva fosse un film ossessionata da me stessa, non mi dicevano certo una cosa che non sapevo. Però, Scarlet Diva l’avevo fatto e non avevo bisogno di rifarlo di nuovo. In Ingannevole… sono stata molto attenta ad ogni inquadratura fatta su di me, che non risultasse ossessionata da me stessa. E poi, sinceramente, non mi interessava, perché il film non è il punto di vista di Sara, è il punto di vista del bambino. In realtà il film, la narrativa anche, verte su qualcuno che cerca di ricordare, è come una memoria. E la memoria è una cosa labile, viaggia tra l’iperreale e il surreale. Volevo raccontare il film dal punto di vista del bambino, io mi immedesimo nel bambino. Sara non è un personaggio che amo particolarmente. Non la odio neanche, non riesco ad odiarla. Nei suoi confronti provo una grande pena, perché è una persona alla quale non è mai stata data la possibilità di vedere un altro lato dell’esistenza. Una persona sola, maltrattata dalla sua famiglia, cresciuta nella violenza e che continua a perpetrare la violenza. Insomma, non la giustifico ma non riesco ad odiarla. Questo credo esca dal film. Non è come un film americano dove i cattivi sono riconoscibili, perché nella vita non è così. Penso sia importante dire che i cattivi non sono così facilmente riconoscibili, perché se fossero così riconoscibili, sarebbero tutti in carcere. Invece i cattivi sono come il primo amante di Sara: questo belloccione, cowboy, capace di ogni male…
Anche in Scarlet Diva tu mettevi in scena la gravidanza: il sogno e l’incubo di una gravidanza… Il rapporto con una vita che nasce da te, visto che sei diventata madre più volte, che cosa rappresenta? E perchè l’avevi ricercato anche in Scarlet diva? Qui partivi, in Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, da un testo che già c’era…
Ai tempi di Scarlet Diva la gravidanza era un desiderio che avevo. Quando lessi il libro di J.T. Leroy mi colpì l’immagine di una madre così criminale: mi era incomprensibile, ho fatto fatica a leggere le prime trenta pagine di questo libro. Poi mi ha affascinato, non tanto lei ma, appunto, la storia di questo bambino. E ho pensato che fosse una storia importante da raccontare, proprio da un punto di vista di informazione. Perché questo è quello che accade nel mondo. Le persone che si alzano dal cinema e se ne vanno, perché non riescono a sopportare questo, sono magari le stesse che leggono di queste violenze sui giornali, dicono: «Ah è terribile!» e vanno a mettere i fiori davanti alla porta del luogo in cui è accaduto un omicidio. Ma quando accadeva questa violenza, i vicini di casa non facevano nulla. Sono molte le persone che non vogliono sentire questa storia, perché è una storia vera. Ma è una storia che accade nel mondo e non solo nell’America schifosa che siamo abituati a conoscere. Quindi penso che sia un’informazione importante da passare.
Che rapporto hai con l’America?
L’America che conosco io non è la vera America. Io frequento New York, Los Angeles, l’America delle grandi città. Ma l’America che ho conosciuto girando, per esempio, Ingannevole… è un’America che noi umani neanche possiamo immaginarci. Un luogo veramente orripilante. La storia che io ho raccontato nel film, dal punto di vista estetico non avrei potuto raccontarla in Italia. Questi parcheggi enormi, queste mostruosità, questi franchising, questi luoghi tutti uguali, la desolazione. È proprio una caratteristica americana, del Sud, di quella Bible Belt, di quella “cintura della Bibbia”, che è poi l’America vera. Sono scenari dove senti che regna la follia…
Ecco, la follia… In passato abbiamo parlato molto di La Terza Madre.Tu facevi un discorso molto particolare, legato alla possibile follia del personaggio della protagonista…
La Terza Madre è stato uno specie di viaggio iniziatico, il compimento di uno studio sulle streghe e sulla magia iniziato con Suspiria, che mio padre e mia madre hanno intrapreso insieme. Mia madre forse era ancora più addentro a questo mondo, ha letto molti più libri… Mio padre, è una persona più con i piedi per terra, mentre mia madre è dei Gemelli, e quindi è più un segno d’aria. È stata mia madre a darmi una chiave molto interessante per leggere il personaggio di Sarah Mandy. Io non ne so niente o pochissimo della magia, perché sono anch’io come mio padre una persona molto terrena: però, come nel film la Mater Lacrymarum fa diventare pazze le persone con la forza del suo pensiero, che è un pensiero distorto, anche la magia ha molto a che fare con la follia: è un limite molto sottile quello tra la follia, la pazzia, e la magia, il paranormale. La chiave di lettura giusta del mio personaggio me la diede, appunto, mia madre, suggerendomi di pensare a Sarah come a qualcuno che forse è pazzo, forse sente quelle le voci… Fino alla fine, io l’ho vista così Sarah. Lei è una ragazza con i piedi per terra, che studia restauro, lavora in un museo e iniziano ad accadere delle cose che non sono contemplate nel suo piccolo mondo. Lei dice: «Io credo in quello che vedo e in quello che tocco» e improvvisamente inizia a sentire delle voci nella testa, la voce di sua madre, morta quando era molto piccola… Quindi è costretta a confrontarsi con una parte di sé, la parte più impalpabile, una parte che proviene da sua madre, da cui scappava… e a diventare una donna molto potente… una strega. Tutti i personaggi femminili nei film di mio padre sono così: ragazze fragili, al limite della follia; una fragilità che diventa quasi un handicap nella vita, tanto che poi devono riscattarsi con il “potere”.
La domanda più banale del mondo: ma da piccola, immaginavi, sognavi di fare l’attrice?
Più che altro, pensavo che sarei diventata una scrittrice. A cinque anni avevo come livre de chevet Moby Dick e già ho detto che al posto delle fiabe i miei genitori mi facevano vedere i loro film…
Ma è vero che già a nove anni hai scritto un libro di racconti dal titolo Pensieri?
Sì, era una raccolta di piccole storie molto crudeli. ma scrivevo anche poesie. Qualche anno fa stavo lavorando a dei racconti ispirati a William Burroughs, cose abbastanza allucinate, dal titolo Sul luogo e sul non luogo. Mi è sempre piaciuto molto scrivere. Può essere che in altra vita fossi una scrittrice… All’inizio, quando recitavo c’era una parte dentro di me che non si rassegnava a non poter essere una scrittrice. Infatti, ogni film era una specie di incubo, soffrivo di crisi d’insonnia. Era una condizione molto stressante…
Che è passata quando?
A sedici anni, quando ho girato Trauma con mio padre, il primo film in cui lui mi ha diretta. Il fatto che mi avesse scelta, mi ha dato sicurezza, mi ha fatto sentire protetta. Durante le riprese riuscivo a dormire benissimo. Lui me lo disse indirettamente, che sarei stata la protagonista di Trauma: stavo lavorando sul set di Michele Placido, Le amiche del cuore, mio padre venne lì e parlando con Michele gli disse che stava scrivendo un film per me! Lo venni a sapere così… Col tempo ho poi fatto una riflessione sul cinema di mio padre: ho notato che in tutti i film che lui aveva girato prima che io nascessi, le protagoniste femminili avevano qualcosa che mi somigliava.
E come te lo spieghi?
Lui basava molto queste figure di donna sulla propria parte femminile. E io gli somiglio molto. Ecco spiegato l’arcano.
A un certo punto, ti sei trovata nella condizione di dover girare scene di nudo e di violenza sessuale sul set davanti a tuo padre…
Sì, ed è stata un’esperienza terapeutica. Ho vissuto praticamente in diretta la morte del mio complesso di Edipo. Essere sverginata davanti a mio padre, è stato fantastico. Mi sono scrollata di dosso un sacco di problemi.
Che ne pensi della recente svolta hard, nel senso del sangue e dell’erotismo, del cinema di Dario?
I film di mio padre sono sempre stati molto sensuali, magari un tempo non si potevano mostrare certe cose, o lui si autocensurava, però c’era una forte componente sensuale in tutti i suoi film. Forse dopo aver girato Jenifer, in America, si è divertito a raccontare questo estremismo sessuale. I tempi cambiano e anche le storie… Mio padre ha cambiato molte pelli durante la sua carriera, ha esplorato molti generi, molti temi. Forse i tempi che viviamo in questo momento sono particolarmente violenti, e cose che un tempo non si potevano raccontare, oggi le vediamo tutti i giorni in televisione. Comunque a lui non interessa quello che vede in televisione, sicuramente non si ispira alla violenza quotidiana, cerca qualcosa dentro di sé… Ma io non sono il suo analista (ride).
George Romero: un altro grande outsider nella storia del cinema horror universale, molto amico di tuo padre…
La prima volta che incontrai George avevo più o meno quattordici anni. Lui e mio padre stavano collaborando alla regia di Due occhi diabolici, ambientato nella città natale di George, Pittsbugh. Conobbi anche Tom Savini in quella occasione. Poi ho incontrato ancora George a Budapest, in Ungheria, mentre stavamo girando Il Fantasma dell’Opera. Era in cerca di locations per un film su Poe che poi non venne mai fatto (The Raven, ndr). Pranzammo insieme. Non è che mio padre e George si sentano tutti i giorni, nonostante si vogliano bene e ciascuno rispetti il lavoro dell’altro. Così era successo che George mi avesse voluto nel cast di due suoi progetti, ma purtroppo nessuno dei due si era concretizzato. Poi invece è venuto La terra dei morti viventi, che è stata una fantastica esperienza, nonostante le condizioni proibitive in cui abbiamo girato, d’inverno a Toronto, a venti gradi zotto zero.
Che film erano i due film di George che non sono stati realizzati?
Uno s’intitolava The Ill, era una storia di vampiri ambientata ai nostri giorni che affrontava il tema dell’Aids. L’altro si chiamava Diamond Dead, un musical con gli zombi scritto da Richard Hartley (l’arrangiatore musicale del Rocky Horror Picture Show di Richard O’Brien, e co-autore della colonna sonora del suo sequel Shock Treatment). Una magnifica sceneggiatura su una cantante che crea una rock band, ma proprio quando sono sul punto di raggiungere il successo, un incidente causa la morte di tutti e così lei fa un patto con la morte per riportarli in vita sotto forma di zombi.
Qual è il miglior regista che ti ha diretto?
Ho lavorato in tutto il mondo, con registi molto diversi. Ma la conclusione è che mio padre è uno dei migliori, sia per il modo con cui usa la macchina da presa sia per la genuinità del suo cinema, che nasce dal profondo.
Parliamo del bacio al rottweiler che hai dato in Go Go Tales di Abel Ferrara…
Fin da bambina sono stata terrorizzata dai cani, come Abel Ferrara del resto. Con quel rottweiler il rapporto era iniziato in maniera burrascosa, perché mi trascinava da una parte e dall’altra del set. Poi, siamo diventati amici, ho imparato a volergli bene e quel bacio ha sancito la nostra complicità. Come sempre su un set di Ferrara le cose non vengono pianificate e anche quella scena è stata improvvisata al momento. Dopodiché, i giornali hanno strumentalizzato la cosa ed è quello che mi ha fatto più incazzare…
Lavorare con Abel Ferrara richiede nervi d’acciaio, a quanto pare…
Psicologicamente, è un’esperienza di grande violenza. C’è di buono che dopo avere avuto a che fare con lui, ho abbandonato qualsiasi visione mitica o idealistica del mestiere di attore. In qualche modo è stata anche questa un’esperienza terapeutica e catartica.
Una volta hai dato di te stessa questa definizione: “Due dimensioni, tangibile ed impalpabile, la linea che le separa: io”… è sempre valida?
Sì…