Il conto è chiuso: torture e morte a Salò
Il primo tentativo di ricostruire analiticamente il numero, le caratteristiche e l’ordine dei supplizi su cui culminava l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Sono passati diversi anni da quando pubblicammo su Nocturno cartaceo questo studio piuttosto dettagliato sulla parte finale di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini. La sezione che si usa definire “delle torture”, e che un critico chiamò “dell’annichilimento”, il coronamento del girone del sangue. Tentammo, nel 2008, di ricostruire l’esatto ordine in cui i carnefici si davano il cambio tra la postazione del voyeur – il termine è quello specifico con cui nei documenti di scena del film veniva indicata la persona posta ad osservare con il binocolo – e il cortile dove venivano compiute le atrocità ai danni dei fanciulli e delle fanciulle, i cui corpi avevano cessato di dilettare o di essere utili ai quattro rappresentanti del Potere: Il Monsignore, Il Duca, L’Eccellenza e Il Presidente. Le conclusioni cui giungevamo si sono dimostrate esatte anche al vaglio di nuovi elementi che non possedevamo allora ma sui quali possiamo giudicare ora, ovvero le circa 8000 fotografie di scena di Deborah Beer che permettono una ricostruzione addirittura millimetrica di tutto (o quasi tutto) quel che accade sul set di Salò, dall’inizio delle riprese. Giuseppe Bertolucci covava il progetto di creare, tramite gli scatti della Beer, una sorta di fotofilm di Salò che rendesse conto di ciò che Pasolini aveva girato. Ma è rimasto un progetto senza seguito ed è un peccato. Oltre alla Beer, anche le fotografie di Fabian Cevallos, ammesso sul plataeu nelle ultime fasi della lavorazione, quando si girarono la scena del matrimonio e appunto, le torture, è una documentazione indispensabile per affrontare il cimento di riportare l’ordine nel caos con la scorta di bussole sicure. A differenza degli scatti della Beer che ho potuto visionare nella loro completezza, per quelli di Cevallos mi sono dovuto limitare a quanto il fotografo ha pubblicato nel suo libro dedicato a Salò.
Ma dire che la ricostruzione tentata si è dimostrata verosimile potendo riscontrare le supposizioni con i dati sensibili, non significa sostenere che tutto quel che c’era da scoprire su questa sezione finale del film, sia stato scoperto. Che i misteri siano stati elucidati. Anzi. I grandi buchi neri, le lacune che si aprono nella tradizione di Salò e che attendono di essere colmate, restano le stesse di qualche anno fa. Come si è arrivati all’edizione del film che attualmente conosciamo? Cosa distingue la copia che venne vista a Parigi alcune settimane prima dello screening ufficiale – avvenuto il 22 novembre del 1975, a venti giorni dalla morte di Pasolini – dalle versioni successive? Chi si occupò di ridurre, aggiustare, modificare, rimontare tale versione, che fece infuriare i comunisti francesi, a quanto si sa, per ricavarne il montaggio poi vulgato? Quanto c’entrò Pasolini in questo e quanto invece fu fatto senza che il regista sapesse? Ho sbattuto contro questi problemi proprio indagando su una questione voyeuristico-filologica-“anale” quale può essere ristabilire la sequenza, l’ordine preciso e la qualità delle torture finali. Un giornalista inglese, Edward Behr, pubblicava il giorno 9 dicembre del 1975, sulla Stampa di Torino, il resoconto della sua visione di Salò, nella proiezione precedente al debutto di Parigi, ed elencando le efferatezze viste, cita un paio di situazioni che nella versione attuale non esistono ma che sono state sicuramente girate – lo testimoniano le foto di scena: lo sventramento di Dorit Henke e lo scoperchiamento della calotta cranica di un’altra vittima femminile, Faridah Malik, con esposizione del cervello.
Questo senza ancora sollevare il problema dei problemi, se davvero il furto di parte del girato di Salò avesse causato, cioè obbligato, determinate scelte registiche soprattutto nell’ultima parte del film. Non si è mai indagato in modo approfondito il mistero di questa sottrazione che certe dichiarazioni di Pino Pelosi hanno messo persino in rapporto con la morte di Pasolini, il quale si sarebbe recato la sera del 2 novembre 1975 a un appuntamento per riscattare il materiale trafugato, andando invece incontro alla propria fine. Un’ipotesi francamente metafisica. Sta di fatto che il furto spiegherebbe come mai l’ultima parte di Salò ponga i tanti problemi di continuità e di logica che affrontiamo in questo studio. A lungo ho pensato che Pasolini abbia fatto ricorso al mascherino del cannocchiale, nell’illustrazione delle torture osservate dai voyeur, non come escamotage espressivo – su cui tanto inchiostro è stato versato – e nemmeno come espediente a parziale attenuazione dell’insostenibilità di quelle immagini; ma piuttosto come stratagemma formale per camuffare la qualità inferiore di certe riprese, che non erano i ciak “buoni” , trafugati, bensì dei doppi o degli scarti con cui al montaggio dovette poi fare di necessità virtù. L’emersione recente del backstage di Gideon Bachmann, girato sul set durante i primi giorni di riprese delle torture, ha dimostrato, invece, che l’idea del cannocchiale era originale – nel filmato che ho appena citato si vedono e si sentono Pasolini e il direttore della fotografia discutere a lungo dei problemi di focali e obiettivi che l’uso di questo artificio comportava.
C’è sempre il rischio, maneggiando questa materia, di farsi venire delle idee oziose, inutili, fanatiche: per esempio domandarsi come mai filmare metri e metri di pellicola sulle torture, con trucchi ed effetti speciali, per poi usarne, nel montaggio che conosciamo, solo una manciata? O arrivare a credere che Pasolini avesse deciso di frenare sulle situazioni allucinanti messe in scene in quel cortile casermato di Cinecittà, come se si fosse reso conto che era troppo? Metafisica pura anche questa: Salò nasceva per essere quel “troppo”. Qui ci si spalanca il grande abisso della questione: mancano le date, mancano i dati, mancano le testimonianze, manca soprattutto la voglia di capire come siano andate effettivamente le cose ex ante, non ex post. Perché si è sollevata un mucchio di polvere intorno alle vicende censorie del film, a quello che è successo dopo, quando il Salò che conosciamo è uscito nelle sale italiane. Ma non si sa, invece, praticamente niente di ciò che è accaduto prima, del furto durante le riprese o alla fine di esse, del primo montaggio – Tatiana Casini Morigi, la montatrice di Sordi, fu la prima ad andare in moviola ma abbandonò disgustata – della fatidica proiezione francese antecedente il 22 novembre, della versione più lunga vista nell’occasione, con molte più torture. Un director’s cut che ha fatto scendere i propri segreti nella tomba insieme al cadavere di Pier Paolo Pasolini.