Il Corpo. Autopsia di un thriller italiano

Intervista al regista Vincenzo Alfieri: “L’ho fatto ascoltando Epitaph dei King Crimson”
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Il Corpo è il nuovo thriller di Vincenzo Alfieri, interpretato da Giuseppe Battiston, Claudia Gerini e Andrea Di Luigi. Il film viene proiettato Fuori Concorso al Torino Film Festival e poi arriva in sala il 28 novembre, distribuito da Eagle Pictures. Per indagare come, quando e perché si può girare un film di genere oggi in Italia, ne abbiamo parlato proprio col regista.

Partiamo dall’inizio. Il tuo film si apre con un cadavere, quello dell’imprenditrice interpretata da Claudia Gerini, ma poi il corpo scompare dall’obitorio. Prima ancora vediamo la Gerini che fa uno scherzo al marito, fingendo di rifiutarlo sull’altare. È una sorta di dichiarazione di intenti: attenzione a cosa vedete, non è tutto vero, c’è dietro l’inganno. Dico bene?

In parte sì. Era mia intenzione creare una sorta di teaser di ciò che i personaggi avrebbero raccontato di sé. Dare delle risposte allo spettatore nei primi minuti, farlo sentire sicuro di aver capito tutto, e poi ribaltare completamente le sue convinzioni e quelle dei protagonisti. Questo anche per creare un parallelismo con l’arco del protagonista: proprio come noi che osserviamo la storia pieni di certezze, Bruno Forlan, un chimico stimato che vede tutto con razionalità, affronta questa lunga notte inizialmente sicuro del suo piano e di dove la sua vita stia andando. Ma presto si troverà solo e pieno di dubbi, obbligato a ricostruire un puzzle insidioso che lo porta quasi alla follia, quando tutto intorno a sé sembra non avere alcun senso.

Il Corpo, come da titolo, verte sull’idea angolare di un cadavere che sparisce. Come vi è venuta? Come avete scritto il film, proprio a livello di soggetto e sceneggiatura?

 Il Corpo è una rivisitazione dell’omonimo film del 2012 (El Cuerpo di Oriol Paulo, ndr). Io non sono un fan del concetto di remake, a meno che non ci sia un’esigenza narrativa forte, un qualcosa da aggiungere di sostanzioso a quanto già esplorato: è stato questo il caso. Poco dopo che mi è stato proposto, ero nel mio studio a chiedermi se e come lo avrei fatto. Stavo ascoltando una delle mie canzoni preferite, Epitaph dei King Crimson e sono stato colto da un’immagine, nitida, come se fossi già sul set: un uomo seduto in chiesa, non per confessare i suoi peccati, ma per mangiarli in modo vorace. Uno che voleva semplicemente “stare male”. Sia questa scena che la musica sono finite nel film. Io e Giuseppe Stasi abbiamo scritto la sceneggiatura proprio sulla falsa riga di Epitaph. “La confusione sarà il mio epitaffio”, canta il frontman. La lunga e piovosa notte di Bruno Forlan, con tutte le sue macabre vicissitudini, altro non è che un lungo epitaffio da scrivere sulla tomba sociale e personale che si è scavato dopo aver ucciso la moglie.

È un thriller pieno di colpi di scena, quindi non sveliamo troppo. Possiamo però dire cos’è: un film di genere italiano. A mio avviso è genere puro, nel senso che propone un meccanismo senza significati alti o messaggi politici, è un congegno che basta a sé stesso. Sei d’accordo? Cos’è per te il genere?

Non sono pienamente d’accordo. Non ci sono sicuramente messaggi politici, ma era mia intenzione investigare l’animo umano e snocciolare con il pubblico un concetto a me molto caro: l’inevitabilità. Forse sopra di noi c’è un disegno preciso della nostra esistenza, e quando proviamo a cambiarlo soccombiamo, perché non siamo stati progettati per essere qualcos’altro. Per me il genere è un mezzo diverso con cui esplorare concetti comuni come l’avidità, l’invidia, l’amore o l’ossessione. Altrimenti il congegno si incepperebbe nel semplice manierismo. Nel mio caso, ricorro al genere anche perché per me il cinema è sempre stato sinonimo di escapismo: non che non ami guardare anche film neorealisti, sia chiaro, ma personalmente adoro entrare e far entrare gli altri in un mondo che si distacchi dalla realtà e si avvicini quasi ad un’allucinazione.

Volendo, si possono trovare delle ascendenze o ispirazioni guardando al grande cinema americano. A me è venuto in mente Gone Girl di Fincher… Che ne pensi? A chi ti sei ispirato?

È sempre molto difficile per me rispondere a questa domanda. La verità è che leggo, ascolto e guardo di tutto da quando ho cinque anni: da Il sorpasso ad Alien, il cinema mi piace tutto, perché in ogni film trovo sempre qualcosa che può servire alla mia crescita umana e professionale. Certo, come autore sono sicuramente più influenzato da registi come Risi, Monicelli, Tornatore, Bava, Peckinpah, Wong Kar-wai, Coppola, De Palma, Soderbergh e Friedkin… Specialmente per come sono generosi e impietosi allo stesso tempo nei confronti dei loro personaggi. In questo caso mi hanno anche molto ispirato alcuni scatti di Robert Frank raccolti nel libro The Americans, e anche le musiche di Penderecki.

Naturalmente per la riuscita del gioco è fondamentale la resa degli attori e la loro direzione. Claudia Gerini è ormai una certezza del genere: l’abbiamo appena vista in The Well di Zampaglione, che è un horror puro mentre il tuo è thriller, ma in entrambi veste un ruolo ambiguo e di difficile lettura, è una figura a due facce. Come hai lavorato con lei?

La Gerini è come un predatore. Riesce ad essere contemporaneamente con te dandoti tutta la sua attenzione, e a non scoprire le carte su tutto il suo pensiero. Ho visto però nei suoi anche una fragilità e una sensibilità fuori dal comune. Lavorare con una professionista come lei ti tiene sull’attenti perché è sempre pronta, puntuale e presente: conosce il copione a memoria ed è molto a suo agio con sé stessa e il proprio corpo… Cosa che tanti attori non hanno. Sa distinguere l’importanza di un’inquadratura e devi saper rispondere alle sue domande, perché con lei giochi in serie A. Abbiamo costruito il personaggio insieme. Partendo dall’estetica: volevo qualcosa che richiamasse il cinema hitchcockiano, tant’è che il suo personaggio si chiama Rebecca. Abbiamo cercato di dare a Rebecca la fragilità di una donna che per tutta la vita è stata abituata a controllare cose e persone con potere e denaro, che ha trovato un marito che non riesce a tenerlo a sé perché non ha nulla da offrire sul piano umano.

Mi ha colpito il poliziotto sostenuto da Giuseppe Battiston: liso e malandato, è uno sbirro maledetto che a un certo punto fa una tirata nichilista (“Non voglio essere consolato, voglio stare male!”). Un ruolo per lui insolito. Come l’hai scelto, come ci hai lavorato?

Quella battuta è figlia di un’espressione di Massimo Troisi in Ricomincio da Tre: “Lasciatemi soffrire in pace!”. È un’idea di Stasi: siamo partiti proprio da quella frase per costruire il ruolo di Cosser. Quando scrivo non penso mai al cast, ogni volta che mi trovo davanti alla domanda dei produttori “chi ci vedi?”, vado in ansia. Per me scegliere un attore è un processo lungo e ponderato, figlio di un lavoro di concerto con il direttore casting. Nel caso di Battiston però non ci sono mai stati dubbi: era lui dalla prima scena scritta. Sono un suo fan accanito, sono anni che sogno di poter lavorare con lui. Credo che il mio percorso da regista sia molto influenzato dal fatto che ho cominciato come attore. Soffrivo molto perché in Italia si tende sempre a dare gli stessi ruoli alle persone senza investire sulle loro sfaccettature: cosa che per me è la tomba della recitazione. In ogni mio film cerco quindi di uscire dalla zona di confort e investire su una trasformazione. Biagio Izzo nei Peggiori o Fabio De Luigi ne Gli Uomini D’oro sono una prova. Battiston come tutti gli attori che sanno far ridere si porta dietro un mondo di amarezza. Lavorare con lui è stato un onore. Non c’è mai stato un rapporto tipo: devi fare così, o, voglio questo e quello. È sempre stato uno scambio dialettico. Una continua ricerca della perfezione e delle imperfezioni. Abbiamo condiviso film e musiche, abbiamo parlato molto di come doveva essere vestito, perché quello avrebbe detto molto su di lui. Vederlo recitare è come vedere Maradona che palleggia: mi ha insegnato molte cose il nostro rapporto sul set, è un uomo generoso e in ascolto.

Una parola sul vero protagonista, Andrea Di Luigi, il quale si accoppia nel film con una giovane attrice emergente, Amanda Campana.

Il Corpo è  un film in cui vengono esplicitate alcune differenze generazionali. Avevo bisogno di due attori in grado di fronteggiare il peso dell’esperienza di vita di Rebecca e Cosser, e di Gerini e Battiston. Per il ruolo di Bruno ho provinato pochissimi attori. Cercavo prima di tutto una faccia: qualcuno a cui mettere la macchina da presa vicino e che, con una sola espressione, riuscisse immediatamente a farmi capire chi è. Andrea di Luigi ci è riuscito al primo colpo. Scherzosamente dicevo che Bruno Forlan nel film è come Superman, ha due anime, quella con gli occhiali di quando è un semplice assistente universitario e quella senza occhiali, in cui diventa il ricco toy boy di una donna molto più grande di lui e che lo sfrutta per vampirizzarlo della sua giovinezza. Andrea riesce a sembrare entrambe le cose. Non era facile per lui creare un personaggio apparentemente in controllo, ma che poi si rivela un totale fallimento per tutto il film. Uno che viene costantemente sbugiardato o messo all’angolo. Non è usuale avere un protagonista perdente, ma ha affrontato il personaggio di petto e gli ha dato vita in modo straordinario.  Mi sento fortunato ad averlo incontrato, non lo ringrazierò mai abbastanza per come si è concesso.

Per il ruolo di Amanda Campana invece?

Qui ho provinato tantissime ragazze, forse più di cinquanta. Poi un giorno è arrivata lei, ed è stato amore a prima vista. Cercavo una donna che mostrasse per tutto il tempo una finta fragilità, che sembrasse la classica ragazza da salvare, ma che poi rivela un’anima terribilmente oscura. Amanda ha sex appeal, carisma e ironia. È un mix micidiale di capacità attoriali e umane. Le basta un click per cambiare il pensiero del personaggio. Le basta un primo piano per raccontare una storia. Mi ha stupito vederla muoversi sul set con la stessa curiosità di un bambino che osserva per la prima volta il mondo del cinema: nonostante la sua carriera, riesce ancora a stupirsi e a non farsi contaminare dal resto del mondo.

Tu sei in regista di genere in Italia, classe 1986, ancora giovane. Hai fatto a lungo l’attore, ovviamente, ma dietro alla macchina da presa il genere mi sembra la tua passione: Gli uomini d’oro era un heist movie, Ai confini del male era un mystery su due ragazzi scomparsi in un bosco in Toscana dopo un rave… Il Corpo è un thriller col twist. Insomma stai proponendo una via italiana. È una scelta consapevole e cosa farai domani?

Come ti dicevo, il genere per me è un veicolo diverso col quale raccontare temi cari. Soprattutto i rapporti familiari o generazionali. Non so se sto proponendo una via, sicuramente mi batterò sempre per il mio cinema e il mio modo di raccontare. Non so neanche cosa farò domani, non programmo le storie, in genere mi “cadono addosso”. So però che non mi accontenterò mai, voglio continuare ad esplorare altri generi. Sono tantissime le cose che voglio ancora raccontare, perché i film sono la forma artistica più completa per esplorare la vita. Più di tutto, però, spero davvero che un giorno la gente possa andare al cinema associando il mio nome alla qualità, spero di diventare un rifugio sicuro dove trovare un po’ di sana follia.

 C’è qualcosa che mi è sfuggito? Un aspetto che ti piace sottolineare?

Ci tengo a evidenziare il mio sodalizio con lo sceneggiatore Giuseppe Stasi, particolarmente stimolante. Giuseppe è davvero una voce fuori dal coro, è un privilegio averlo al mio fianco. Poi vorrei dire che la fotografia e la musica giocano un ruolo fondamentale. Il mio processo di scrittura è lungo e lavora sempre di concerto con queste due figure: quando scrivo mando le scene al compositore musicale Francesco Cerasi, che le legge e mi manda una sua proposta. Io ascolto il pezzo e riscrivo la scena. Stessa cosa con la fotografia, in questo caso egregiamente curata dall’esordiente Andrea Reitano che ha fatto un lavoro davvero straordinario: leggeva le scene e mi rispondeva con riferimenti fotografici. Parlavamo di luce, di come questa si rivolgeva ai personaggi. La sfida più grande per lui è stata accontentare la mia esigenza primaria, ovvero: voglio che la luce si produca dal buio. Un lavoro importante è stato fatto anche con la costumista, lo scenografo e tutti gli altri reparti: insomma, è un processo creativo che alla fine rende tutto molto organico.