Il film che visse due volte
Una sceneggiatura per due film
La verginella & La studentessa. Per i film – non tutti; di sicuro molti di quelli italiani degli anni Settanta – vale la regola che vale per certe persone, che si presentano trasandate e vili, di aspetto ordinario e persino sgradevole. È raro, interrogandoli, quelle persone e quei film, che non sprigionino storie degne di uscire dal loro privato, di venire diffuse. La verginella di Mario Sequi, del 1975, fu l’ultimo lavoro di un regista cagliaritano nato nel 1913 il cui unico rilievo agli occhi degli starlettisti potrebbe essere quello di avere sposato nel 1932 Lia Franca, la prima attrice ad avere parlato nel cinema italiano (temporibus illis: Libia o Livia Penso, all’anagrafe, nacque nel 1912 e si ritirò dalle scene alla vigilia del matrimonio, dopo cinque film); o quello, agli occhi dei fanatici del bis, di avere diretto un decamerotico con Antonia Santilli e un giallo con Nadia Tiller. Per il resto, una filmografia sull’andante. Se non sgradevole, certo ordinaria, tale da non far venire voglia di accostarla più di tanto. La verginella non l’avevo mai visto e non lo sarei andato a cercare, se non fosse stato per una conversazione con Fabio Piccioni, accreditato come autore del soggetto. Il film verte su una ragazzina di 19 anni, Claudia (Sonia Jeannine), figlia di un democristiano sposato con Anita Strindberg (bionda, ossigenata e zoccola) che si corica con Alessandro Haber doppiato in spagnolo maccheronico (sono frustoli insignificanti della trama ma vanno riferiti).
Siccome il professore di italiano di Claudia (José Quaglio) si presenta alla polizia dicendo di avere ucciso un uomo e siccome in casa dell’uomo vengono ritrovate foto discinte della ragazzina, un commissario indaga. È Renato Romano. E interrogando ora la studentessa ora il professore, riemerge in flashback una faccenda abbastanza turpe: tramite l’amica Simonetta (Bianca Toso), Claudia si trova in un giro di squillo minorenni gestito dal satiro Gianni Musy, concatenato con un giovane fotografo, playboy e magnaccia, interpretato da Sergio Sinceri, che fa innamorare di sé Claudia e la getta nelle peggio situazioni del meretricio. Il professore c’entra perché, invaghitosi dell’alunna, anche se la relazione resta a un livello puramente intellettuale e platonico, interverrà affrontando il fotografo, con un esito incidentalmente delittuoso. Tutto è molto più complicato, intricato e confuso del riassunto che ne ho fatto. Perché, di base, nessuno ha chiaro che tipo di film fare, se un dramma, una commedia con discreto – ma tendente all’alto – gradiente sexy, un mezzo erotico, una mezza farsa di costume, un mezzo scolastico e chi più mezze cose ha più ne metta.
Torno ora a Piccioni: il quale mi spiega che il soggetto, anzi la sceneggiatura da cui è originata La verginella (redistribuito anche con il titolo Morte di un fotoreporter: incoerente) è la stessa che pochi mesi dopo si trasformerà in La studentessa, stavolta diretto da Piccioni stesso. Attenzione: non una storia simile, ma la medesima storia, il doppelganger. Nessuno di noi se n’è mai accorto, perché nessuno di noi finora aveva visto La studentessa, dove a tutti i personaggi della Verginella corrisponde l’eguale: alla Jeannine Cristiana Borghi, alla Bono Lorraine De Selle, a Quaglio Mark Fiorini. La verginella termina bene. La studentessa termina malissimo ed è, obiettivamente, film di una caratura molto superiore, oltretutto istruttivo per rendersi conto di come cambia il passaggio dalla potenza all’atto. Però la visione del film di Sequi non passa invano, lascia qualche cosa, deposita dei sedimenti e pone qualche minimo, impercettibile, peso persino sulla bilancia dello spirito. Appunto come fanno certe persone.