Il Wester sperimentale di Monte Hellman
Piombo e furore: storia di una carriera eclettica
Quando si parla di western revisionista, spesso si limita il discorso a quella manciata di pellicole che si schierano apertamente dalla parte degli indiani – Soldato blu, Piccolo grande uomo, Un uomo chiamato cavallo – o che danno una nuova e romantica rappresentazione del fuorilegge (vedasi Butch Cassidy), ma il discorso è in realtà molto più complesso. Il revisionismo nel cinema western, che a sua volta fa parte di quel rinnovamento epocale noto come New Hollywood, è da retrodatare alla metà degli anni Sessanta (ma addirittura quel genio di Sam Peckinpah diresse due brillanti new-western già all’inizio dei sixties, La morte cavalca a Rio Bravo e Sfida nell’Alta Sierra) e va esteso a una concezione più universale: non necessariamente limitata alla questione indiana o al mito del fuorilegge, ma relativa a una rivoluzione tematica e strutturale dei film western, e sfociante talvolta nella destrutturazione del linguaggio cinematografico tradizionale. Un contributo fondamentale in tal senso è stato offerto da un’altra mente geniale, pur se meno celebre di Bloody Sam: Monte Hellman, un regista dalla carriera eclettica, formatosi alla factory indipendente di Roger Corman, e in grado di passare dagli western sperimentali al road-movie, dall’avventura al film di guerra, fino all’horror di natura commerciale (ma è noto anche come produttore esecutivo de Le iene di Tarantino). Hellman ha diretto una manciata di pellicole, non tutte della stessa importanza né ugualmente riuscite, ma delle quali almeno quattro sono fondamentali per il nuovo sguardo sul mito della Frontiera: tre western – i seminali La sparatoria e Le colline blu (1966) e il tardo Amore, piombo e furore (1978) – e il road-movie Strada a doppia corsia (1971), apparentemente estraneo al discorso in esame ma squisitamente personale e molto vicino all’idea western di Hellman. Come si diceva, il regista si è fatto le ossa con Roger Corman: il re degli horror a basso costo, insieme allo stesso Hellman e a Jack Nicholson (un altro membro della factory e futuro esponente di spicco del nuovo cinema americano) ha co-prodotto i primi due western. Due film gemelli, girati contemporaneamente nelle stesse location, cioè gli spettacolari deserti dello Utah, e in parte con lo stesso cast. Se La sparatoria e Le colline blu non sono i primi western revisionisti in assoluto (ricordiamo i due suddetti film di Peckinpah), sono però sicuramente i primi western sperimentali. Parliamo di un western completamente diverso da quello a cui eravamo abituati, tanto nella forma quanto nei contenuti: è un cinema estremamente rivoluzionario e sperimentale, di pura avanguardia, un esercizio mentale volto alla sottrazione, un western del tutto minimalista, surreale e anti-narrativo – persino un anti-western, potremmo definirlo – dove si parla poco e si spara ancora meno. Lo stile e la narrazione possiedono un marchio autoriale inconfondibile, che tornerà poi anche nei film successivi, e le storie raccontate non sono mai banali, sempre incentrate su figure borderline e anti-eroiche. Spesso i paesaggi diventano i veri protagonisti, e non un semplice sfondo, importanti almeno quanto i personaggi.
L’analisi della loro psicologia e dei loro rapporti diventa predominante, e in questo senso prosegue un po’ la strada di quel western psicologico già sperimentato in passato da registi come Fritz Lang o Raoul Walsh. L’azione passa in secondo piano, soprattutto ne La sparatoria, che fra tutti è il più radicale e avanguardista, e anche la violenza è quasi sempre stilizzata o lasciata fuori dall’inquadratura. Il west(ern) diventa un mondo e un genere senza eroi né vincitori, in largo anticipo sui tempi nel cinema, e lo stesso vale per il road-movie, poiché il viaggio è un elemento trasversale nei quattro film. Ma ciò che Hellman rivoluziona è innanzitutto la forma, il che si traduce in lunghe inquadrature, lunghi silenzi e un ritmo talvolta così lento da diventare esasperante. La sparatoria, come si diceva, è il più sperimentale fra tutti, e il più rappresentativo del western revisionista e anti-convenzionale di Monte Hellman: la vicenda è quasi interamente occupata da un viaggio, al quale partecipano il cercatore d’oro Willet Gashade (Warren Oates) col suo compare, un’ambigua donna (Millie Perkins) e lo spietato pistolero Billy Spear (Jack Nicholson); il gruppo è stato assoldato dalla ragazza per attraversare il deserto e compiere una certa missione di cui i due protagonisti sono tenuti all’oscuro. Una missione che, per chiaro intento narrativo, neanche lo spettatore conosce (anche se può intuirla), visto che La sparatoria è per certi versi quasi un giallo che procede attraverso il disvelamento di enigmi. Se vogliamo fare un paragone teatrale, il western di Hellman è l’Aspettando Godot di Beckett: una lunga attesa in cui sembra debba succedere di tutto e invece accade poco o nulla, ed è paradigmatico come la “sparatoria” del titolo in realtà non ci sia, ridotta com’è a qualche colpo di pistola nel finale – una risoluzione anti-catartica che è una cifra di tutti i film di Hellman. Esempio massimo di cinema concettuale, La sparatoria è anche uno dei primi western psichedelici – paragonabile per certi versi a western italiani in acido come Yankee, Matalo! e Se sei vivo spara – permeato da un clima surreale e rarefatto assolutamente nuovo per il genere. Non ci sono villaggi né sceriffi, ma solo deserti abbacinanti, un trading post e una miniera; il tempo è come sospeso, ci troviamo in una sorta di non-luogo e non-tempo, e i protagonisti si contano sulle dita di una mano. La fotografia è lisergica, abbagliante, e la regia sfoggia elementi surreali e psichedelici: la musica carica di mistero, quasi da thriller, le inquadrature sul sole, il delirante finale con la comparsa del gemello (sempre Oates). La tanto agognata sparatoria avviene quasi tutta fuori campo, attraverso ralenti e fermo-immagine (cifre stilistiche che torneranno in Strada a doppia corsia), e l’ultima inquadratura è una dissolvenza in un bianco accecante. Il grosso del discorso vale anche per il film gemello, Le colline blu: tempi sospesi, paesaggi desertici, niente villaggi, pochi personaggi, un clima sospeso e surreale.
La storia è un po’ più movimentata, e lo stile più sobrio (si fa per dire), ma il tocco è inconfondibilmente quello di Hellman: due cowboy, Vern (Cameron Mitchell) e Wes (Jack Nicholson), sostano presso un gruppo di banditi che ha appena rapinato una diligenza; quando giunge un gruppo di sceriffi, i due vengono scambiati a loro volta per criminali e sono costretti alla fuga. Così come la sparatoria nel film omonimo si riduceva di fatto a un non-visto, qua le colline blu del titolo rimangono un miraggio che non vediamo mai: indicano il confine dello Stato, la zona della salvezza che i due malcapitati cercano a tutti i costi di raggiungere. Rispetto a La sparatoria, è accentuato il carattere borderline dei personaggi: siamo in un west(ern) di anti-eroi, dove tutti sono dei perdenti e sono destinati alla morte o alla sconfitta. Diminuisce la psichedelia ma rimane una forte atmosfera surreale e rarefatta, con pochi dialoghi e lunghi silenzi: i tempi sono dilatati, le inquadrature lunghe, e tutto è giocato sull’attesa, con la conseguenza di un ritmo lento e volutamente snervante. Anche se va detto che ne Le colline blu un po’ di azione c’è, e anche ben diretta: l’assalto alla diligenza, l’assedio degli sceriffi al covo dei banditi, lo scontro a fuoco risolutivo (si badi bene, però, non catartico). Ma il fulcro del film è costituito ancora una volta dal viaggio – a cui si aggiunge il sequestro in casa degli ostaggi, fra i quali compare anche Millie Perkins – dall’attesa, dall’analisi psicologica dei protagonisti e dall’esercizio stilistico minimalista. Dopo questi due western, Monte Hellman si prende una pausa dal genere: fino al 1978, quando, sulla scia del western all’italiana (che ormai stava scomparendo), il regista ritorna alle origini con il malinconico e crepuscolare Amore, piombo e furore. Un film su cui aleggia una sorta di mistero, visto che la versione americana riporta giustamente Hellman come regista, mentre la versione italiana indica Antonio Brandt, aiuto-regista di vari film. Troviamo una probabile risposta nel dizionario sugli spaghetti-western di Marco Giusti, il quale afferma che del film esistono due montaggi diversi e che Brandt è l’autore del cut italiano, ma molti affermano che ci sia in realtà un unico montaggio. Al di là di tali questioni filologiche, basta guardare una volta Amore, piombo e furore per capire come il film sia inequivocabilmente di Hellman, che completa così la sua ideale trilogia dell’anti-western. Frutto di una co-produzione fra Italia e Spagna, dove è stato girato, è un’armoniosa fusione tra la poetica del regista (prevalente) e il western all’italiana, il quale è però limitato alle location, all’attore protagonista e ad alcuni caratteristi.
Clayton Drumm (Fabio Testi) è un pistolero che viene graziato poco prima dell’impiccagione, e in cambio dovrà uccidere un proprietario terriero (Warren Oates) che non vuole cedere il terreno alla ferrovia. Il sicario si innamora però della moglie (Jenny Agutter): i due fuggono insieme e si trovano così braccati sia dal marito furente che dai killer della ferrovia. Hellman si trova a lavorare su un copione scritto da altri, ma lo stile e la narrazione sono squisitamente suoi: ritmo lento, lunghe attese, silenzi, bizzarrie, momenti da road-movie, assenza di eroi. Se La sparatoria spiccava per la psichedelia, Amore, piombo e furore è una sperimentazione (programmatica fin dal titolo) dove le sparatorie sono affiancate a una storia d’amore: alla love-story fra il pistolero e la donna sono dedicate sequenze ampie e girate con gusto, con tanto di nudi, un fatto assolutamente inusuale per il cinema western. Come ne Le colline blu, Hellman introduce poi nella seconda parte alcune sparatorie, in particolare il furioso assedio finale al ranch che si risolve però in un non-duello, una non-vendetta – caratteri che avevamo visto in classici del western quali Quaranta pistole e Nevada Smith, ma rivisitati qui dallo sguardo peculiare di Hellman. Una menzione particolare va alla presenza, breve ma incisiva, di Sam Peckinpah, nei panni di uno strano scrittore: una presenza significativa come omaggio a questo gigante del cinema western (un regista del quale Hellman è una sorta di allievo), ma anche come simbolo di un mondo dove leggenda e verità si mescolano in modo indissolubile. L’anti-mitologia della Frontiera viene infine trasposta da Hellman anche ai nostri giorni: nel road-movie Strada a doppia corsia (1971), dove due hippie gareggiano in macchina con un altro automobilista su chi arriverà per primo a Washington, e nel dramma rurale Cockfighter (1974), con protagonista un uomo ossessionato dai combattimenti fra i galli. Entrambi hanno come protagonista Warren Oates, attore-feticcio del regista. Strada a doppia corsia è uno dei film più celebri di Hellman, un simbolo della New Hollywood e del cinema contestatario degli anni Settanta, e impregnato della quintessenza del suo cinema. È una sorta di Easy Rider a quattro ruote, ma siamo lontani tanto dalla Beat Generation del film di Hopper e di Punto zero, quanto dall’adrenalina di Duel e Convoy. Come negli western, anche qui tutto avviene all’insegna del minimalismo: nessun dialogo memorabile, nessuna scena spettacolare, solo paesaggi semi-desertici o boschivi, stazioni di servizio, passando dal feticismo per le auto a dettagli lisergici come le linee stradali che scorrono frenetiche (pre-lynchiane) o il finale coi ralenti e il cigarette burns sull’immagine. Come in tutti i suoi western e in Cockfighter, i personaggi sono dei borderline, dei perdenti, ingabbiati in un mondo che sembra non appartenergli, e ai quali il cinema della New Hollywood dà voce. Non siamo lontani dalle elegie crepuscolari di Sam Peckinpah, o da Un uomo da marciapiede di John Schlesinger.