Intervista a Dario Almerighi
Il regista discute il suo ultimo film, il diavolo e il futuro dell'horror
Nato a Roma nel 1988, Dario Almerighi si laurea in Regia Cinematografica alla Rome University of Fine Arts con una tesi sul cinema horror dal titolo “Il cinema horror e la sua Psicologia”. Durante gli studi, Almerighi inizia a girare i suoi primi cortometraggi (tra i quali il premiatissimo In Umbra Rosae), per esordire in seguito con il lungometraggio 42-66 le origini del male, distribuito in DVD da Home Movies, nel 2018 ha girato Me and the Devil (“Una storia dark di amore e follia”) e il cortometraggio Ira per l’antologia sui peccati capitali biblici Seven Sins di Domiziano Cristopharo.
Nel tuo film “Me and the Devil” sono sottolineati e ripetuti dei concetti chiave , potresti spiegarli?
Dario Almerighi: Dio e il Diavolo. Il dolore fisico come piacere. Il dominio sull’uomo e la sottomissione.
Ovviamente è difficile spiegare le sensazioni legate al male e il bene, è una percezione molto personale e individuale, ma per rendere chiaro il percorso e bivio del protagonista durante la storia ho deciso appunto di far ruotare la storia attorno a un sequestro. Dove o si sta con i sequestratori, o con i liberatori… la via di mezzo è l’indifferenza, rappresentata in una scena dall’amico del protagonista. Credo anche questa posizione, l’indifferenza, sia schierarsi in qualche modo con i “cattivi”. Penso che il male sia riconoscibile perché porta a voler annientare sia il prossimo che, inevitabilmente, in modi diretti o traversi, se stessi. Spesso le persone cercano il male, ma a volte il male cerca le persone, è proprio questo che il film vuole comunicare. Il libero arbitrio, infatti, arriva fino a un certo punto nell’universo del film. I personaggi decidono in parte che forze attrarre e desiderano, ma una volta presa posizione e schierati, con dio o con il diavolo, la battaglia è in gran parte nelle mani di quest’ultimi.
Chi è il diavolo oggi?
DA: Credo che le religioni abbiano enormi quantità di filosofia, esperienze umane (collettive e individuali) e riflessioni racchiuse in metafore. Il diavolo si ama e si odia per sua stessa natura, è, ad esempio nella religione cristiana e satanista, sia portatore sia di luce, di potere individuale e libero arbitrio, sia di divisione dal prossimo, da se stessi, dalla natura e infine dalla vita… infatti chi entra in contatto con il diavolo spesso tenta il suicidio, come il protagonista del film. Allontana l’uomo dallo spirito in cambio del piacere immediato, allo stesso tempo ha molti aspetti sia affascinanti che negativi, una vita prostrata a dio, e credo sia affascinante ed inquietante svolgerla… sono aspetti entrambi attraenti secondo me. Credo che sia molto difficile per l’ essere umano non cedere a nessuno dei due e rimanere davvero libero. Sicuramente però, l’essere umano in occidente, a livello di massa, ha ormai scelto da che parte stare, e credo stia ormai dichiaratamente con il diavolo.
Perché questa continua necessità di purificazione?
DA: Il protagonista si trova ad affrontare il buio e il lutto, una volta toccato il fondo con il tentato suicidio non ha più scelta, o si alza e combatte, o muore. Lì infatti capisce di essere in una guerra spirituale, senza purificazione, o almeno un tentativo verso essa, avrebbe perso se stesso, da solo nella sua stanza, e probabilmente anche la vita, e nessuno avrebbe salvato la ragazza tenuta segregata.
Chi rappresenta il prete?
DA: Il Prete in sceneggiatura non doveva essere tale, ma un aiutante della chiesa, un fanatico cristiano. E’ stato cambiato leggermente il montaggio ed è stato visto da tutti come un prete, va bene così. Diciamo che è un rappresentante di chi ha perso in parte la ragione, ma è contento di averlo fatto, si affida a un ideale, una fede, ha un obbiettivo superiore che non possiamo capire fino in fondo e non capisce nemmeno lui. E’ spinto appunto da una fede cieca, anche violenta. In più è nel giusto perché vuole liberare la ragazza, qui è anche la “provocazione” del film, in un epoca dove tutto è relativo, in questa storia c’è il bene e c’è il male, e lui ne è molto consapevole.
Cosa pensi dei tuoi giovani colleghi che si confrontano con questo genere?
DA: E’ entusiasmante vedere che molti ragazzi stanno svolgendo film innovativi per un puro bisogno comunicativo e artistico prima che commerciale. Ci si dimentica davvero troppo spesso che il cinema è innanzitutto comunicazione, vocazione… si pensa troppo spesso al cinema come un’ esclusiva dei grandi capitali e tappeti rossi, mentre la storia e l’arte hanno sempre gridato che non è così. Alcuni titoli son già interessanti, ma lo dimostrano ancora i grandi autori, in questa arte si matura col tempo e la vita vissuta. Sono molto curioso quindi di vedere tra qualche anno che film porteranno alcuni nuovi nomi del panorama attuale, e sono contento che alcuni altri che erano già emersi procedano con film sempre migliori, nonostante le infinite difficoltà.
Sei soddisfatto della prima edizione dell’AHIFF, e perché?
DA: Innanzitutto, da amante dell’horror, è sempre bello a priori sapere che si avviano iniziative che lo celebrano e danno possibilità a chi lo ama e lo vuole guardare/scoprire di conoscersi. E in questo caso è stato anche costruttivo per le conoscenze fatte, l’ospitalità eccezionale e la location, un castello sul mare, semplicemente bellissima. Non sono riuscito a vedere tutti i cortometraggi in gara, ma da quel che ho visto devo dire, con estrema sincerità, che i cortometraggi finalisti erano davvero di una qualità cinematografica oggettivamente elevatissima. Sicuramente mi godrò volentieri anche i cortometraggi del prossimo anno!