Intervista a Francesca Cavallin
La protagonista di The Nest racconta il suo debutto nel cinema di genere
Quando meno te lo aspetti, ecco la folgorazione. Francesca Cavallin da Bassano del Grappa, classe 1976, buca letteralmente lo schermo in un film horror. Laureata in Storia dell’Arte Contemporanea, un passato da modella e interprete di soap (Vivere la lanciò a fine anni 90), un presente scandito da ruoli – spesso di qualità, vedi alla voce Michele Soavi (Rocco Schiavone e Mentre ero via) – per il piccolo schermo, passati i 40 si scopre votata al genere, dando corpo a uno tra i personaggi più strutturati, profondi, inquietanti e algidamente seducenti del cinema nero italiano contemporaneo. Il suo entusiasmo è trascinante, la sua profondità culturale notevole, la sua passione sincera. Entrare nel vivo dell’intervista è come scoperchiare un vaso di Pandora, celato da quei geometrici lineamenti del viso e da quel magnetismo di sguardo capace di paralizzare.
Da Soavi al cinema horror il passo è stato lungo in termini di medium, ma breve al contempo, visti i trascorsi di Soavi nel genere…
Pensa che Michele me lo aveva promesso: «Se faccio un horror, ti chiamo». Gli ho mandato un messaggio: «Sto ancora aspettando il tuo horror. Intanto, però, lo faccio con De Feo!». Guarda, sinceramente io non vedo l’ora di potermi mettere al lavoro con lui su un horror. Con Soavi già quando fai cose normali sei catapultata da altre parti, perché dal punto di vista del movimento di macchina lui vola, è un visionario tecnicamente straordinario. Mi piace la sua silente follia.
Tu sei un camaleonte: studi arte, provi col teatro, fai la modella, diventi attrice di soap, poi di serie e miniserie tra loro molto diverse. Infine arrivi all’horror e torni al cinema, anni dopo le tue uniche due apparizioni su grande schermo in commedie (Vita smeralda [2006] e I babysitter [2016]). Come mai e come ci sei arrivata?
Il perché è presto detto: io gli horror, soprattutto quelli psicologici, non li guardo perché ho paura. Non ci riesco e, per questo, mi sono sempre detta: «Li devo fare». Di lì il discorso con Soavi. Ho dei problemi enormi con questo genere, ti dico solo che ho guardato Stranger Things con mio figlio che mi teneva la mano, di giorno. Quindi io sono questa roba qui. Ora ho scoperto, ma come detto lo avevo già intuito, che farli è la cosa più bella del mondo. Come è arrivato The Nest? L’ho chiamato, probabilmente, perché era da un po’ di anni che pensavo a questa cosa. A De Feo sono arrivata con una telefonata del mio agente, che mi disse: «Francesca, c’è un’opera prima. Secondo me è bellissima, e il ruolo sei tu». Era da tempo che pensavo che mi sarebbe piaciuto partecipare a un’opera prima, o comunque lavorare con un giovane regista, anche perché nella parabola della mia carriera – una carriera sui generis, come sottolineavi tu, che parte tardissimo e in maniera del tutto casuale, sviluppandosi in modo camaleontico, aggettivo che trovo corretto e non mi era stato mai affibbiato – avevo bisogno di sperimentare altro. Sono una persona estremamente curiosa, quindi mi piace sondare e assaggiare, scoprire cose diverse. Mettermi in contesti diversi, sfidanti. Quindi arriva la telefonata, io faccio il primo provino con la casting director Valeria Miranda – che aveva detto al mio agente che per quel ruolo avrebbero visto solo quattro attrici in Italia, perché Roberto non voleva nomi troppo noti né connotazioni di nazionalità e, se tu guardi, nessuno del cast ha una “faccia italiana” – e lei dopo un po’ si sbilancia, dicendomi: «Francesca, molto buono questo provino, hai azzeccato il personaggio». Per il secondo provino mi diedero più informazioni, lessi la sceneggiatura, ed era presente Roberto. Lì è scattata una scintilla, anche perché io, con indosso questo abito verde bottiglia che poi sarebbe stato il colore dominante del film – ma non potevo saperlo, ovviamente -, ho deciso di spingere di più. Io Elena l’avevo ormai già “vista”, ce l’avevo in testa e ce l’avevo negli occhi. Per cui mi sono detta: “O la va, o la spacca: osiamo”, e mi sono presentata vestita da Elena e con i capelli simili a quelli che avrei avuto nel film. Ho azzeccato queste scelte, al punto che poi Roberto – in accordo con la costumista – mi ha fatto usare quell’abito in scena, durante il pranzo in esterno. Roberto, poi, mi disse una cosa bella: «Noi ti abbiamo scelta perché tu, nel provino, non facevi paura. Tu avevi paura, ed è stata quella la cosa determinante». Lui ha colto il colore del mio provino, ma anche il sottotono, e questo ha funzionato. Poi, costruendo il personaggio – lavorando come pazzi, con tempi proibitivi e qualità certosina – mi sono tuffata in un mondo che esisteva già, creato da Roberto con Villa dei Laghi come protagonista fondamentale. Lui ci ha tenuto a portarmici, da soli – si trova vicino alla Venaria Reale, a Torino – e mi ha detto: «Devi venirci con me, e devi restarci da sola, perché devi sentire il posto, devi appropriartene». Un regista che ti dice una cosa del genere non si trova tutti i giorni.
Mi sembra che a questa vedova traumatizzata tu sia arrivata un po’ per gradi: parti con ruoli da ragazza esuberante, solare, sopra le righe, poi pian piano sfumi i tuoi personaggi fino alla sorella di Mentre ero via, i cui toni per certi versi hanno molto in comune con le implosioni in sottorecitazione di Elena.
Già, in sottrazione. Se guardo il mio percorso, questa maturazione è arrivata sul campo – io ho studiato davvero poco recitazione. L’essere stata sui set di generi diversi mi ha fatto crescere e ha stimolato una riflessione sul mio modus. Poi mi affido chiaramente molto al tipo di personaggio e di narrazione in cui è immerso, per cui ho affinato alcune cose e capito che in alcuni contesti la sottrazione sarebbe stata più efficace di altre scelte. È stata una maturazione professionale e anche personale. Nel caso specifico di Elena, hanno contribuito lo studio della sceneggiatura e il fatto che io, come sempre accade, ragiono per immagini – e questo arriva dalla mia preparazione storico-artistica. Mentre leggo le scene, io vedo le scene, e soprattutto mi riferisco sempre ai precedenti iconografici che posso avere nella mia testa.
In questo caso quali erano?
Beh, molto Whistler, alcuni rimandi simbolisti forti – che poi è il mio background di studio – e poi Edward Hopper, con quella stillness che fa parte della sua poetica e in questo caso era evidente, per questa sospensione data dal fatto di non essere in alcuno spazio e in alcun tempo. Questa è stata un’altra cosa molto difficile, per tutti: dalla scenografia ai costumi, dalla regia a noi del cast, bisognava cercare in ogni momento di depistare lo spettatore, privandolo delle coordinate spazio-temporali. Per concludere il discorso sulla preparazione del personaggio, ci tengo a citare un episodio che riflette la forza di questo giovane regista. Dieci giorni prima dell’inizio delle riprese, Roberto mi manda una mail in cui mi dice: «Francesca, tu sarai sottoposta a uno stress psicologico e fisico sovrumano per quattro settimane. Non avremo il tempo neanche di parlarci. In virtù di questo, facciamo che parliamo attraverso la musica. Ti mando una playlist con gli snodi fondamentali di Elena sia riguardanti l’antefatto, sia relativi allo sviluppo, perché voglio farti capire come intendo io il personaggio e quale sia la sua temperatura emotiva. Ti esorto a fare la stessa cosa: mandami delle musiche a cui magari hai pensato o che pensi possano aiutarti ad arrivare a quella temperatura emotiva, e ti prego anche di portarti la musica sul set e, nei brevi momenti di pausa, usala, così entreremo subito in contatto». Io lì sono morta. Sono morta. Quando ho letto quella mail, mi sono detta: «Io con questo ragazzo voglio lavorare per sempre», perché non c’è nulla di più astratto della musica, ma nemmeno di più empatico e di più diretto. Io lo faccio spesso, uso i quadri e uso la musica, ma questo film per me è stato una colonna sonora infinita. Io ero sempre dentro, sempre, grazie alla selezione che entrambi avevamo fatto.
E poi c’è questa inquadratura, verticale dall’alto, con te nella vasca, nuda, il polso tagliato. È il tuo primo nudo, se non erro.
Eravamo già a Torino e Roberto – una tra le persone più riservate e sfuggenti che io abbia mai incontrato – mi dice: «Prima di iniziare le riprese avrei una richiesta da farti, una cosa personale. Ne ho parlato già con la produzione e la premessa è che la decisione finale è tua. Ho pensato tanto alla scena in cui ti tagli (io in origine dovevo essere seduta sul bordo della vasca, vestita, e lui partiva dal rivolo di sangue e risaliva su di me), e ti chiedo di farla nuda. Però è un nudo che ha un senso, per la scena, per il personaggio e il suo momento privato. Per me sarebbe molto più forte, però mi rimetto a te, perché non era in sceneggiatura». Io gli rispondo: «Roberto, per me il nudo – se ha un senso – non comporta nessun problema. Il mio corpo è il mio strumento, faccio l’attrice. Se è motivato – e sapevo di essere tutelata da una persona del tutto scevra da voyeurismi – e se ho intuito lo stile, allora va bene». Poi iniziamo a parlare della scena, che in origine doveva vedermi seduta, o semisdraiata, mentre mi tagliavo. Allora io ci rifletto sopra e gli dico: «Ho una proposta: se io fossi in posizione fetale? Per un personaggio come Elena il momento più privato, di ritorno all’essenza, deve corrispondere al ritorno all’ambiente uterino, a una condizione di protezione assoluta rispetto al mondo esterno. Secondo me per Elena non c’è intimità più grande. E dovresti inquadrarla dall’alto, nuda, dentro quella vasca». Il risultato è stato stilisticamente e visivamente perfetto. È un nudo, ma di un’eleganza straordinaria. E sono rimasta folgorata quando ho visto il movimento di macchina che lui ha fatto, a 180°. Dopo aver finito, ci ha tenuto a farmi vedere il girato.
Chi è, secondo te, Elena?
È una donna che si è costruita il suo atollo, la sua isola felice, con grandissima perseveranza e testardaggine. A un certo punto, all’arrivo di Denise (la ragazzina che va ad abitare nella villa, n.d.a.), è come se vedesse i pezzi di terreno staccarsi. Il suo spazio diventa sempre più piccolo – dice, appunto: «Stiamo girando in cerchio in uno spazio troppo piccolo» – e nella vasca consuma il suo punto di non ritorno, perde l’armatura.
Hai fatto un lavoro pazzesco anche sulla voce: come hai fatto a scendere così tanto di tono da cambiarla?
Sì, ho fatto un grande lavoro. Nel caso di Elena è stato istintivo, conseguenza del percorso introspettivo con cui ho preparato la parte. Me lo hanno fatto notare anche mentre giravamo. Era come se io entrassi in “modulazione di frequenza Elena”, quasi senza rendermene conto, adottando una voce ctonia. Quando ho visto il trailer mi sono persino stupita, chiedendomi se fossi davvero io!