Intervista a Franco Nero: buon compleanno!
Quattro chiacchiere con uno dei pochi attori italiani veramente internazionali
Intervistai Franco Nero nel lontano 2002, a Torino, sul set di un cortometraggio di cui non ricordo più bene il titolo, forse Posizioni di tiro o qualcosa del genere, in cui interpretava un vecchio cowboy che in una fabbrica abbandonata studiava le traiettorie dei proiettili per una specie di duello. Franco Nero ha un’allure che può intimorire, anche se poi, a conoscerlo è un pezzo di pane. Feci questa intervista mentre stava al trucco, seduto su una sediolina all’interno di questa enorme struttura fatiscente nella periferia torinese. L’intervista uscì sul numero 10 di Nocturno terza serie, intitolato Eroi e antieroi del cinema italiano. Franco Nero, che ha compiuto domenica scorsa 74 anni, era ovviamente tra gli eroi…
Il western, vorrei iniziare da questo genere: lei ne ha girati diversi, di western…
Non molti: diciamo un sette per cento della mia carriera. Ho fatto 145 film, e forse una decina di western. Che sono comunque tanti…
Tuttavia alcuni di questi film sono entrati nella storia: Django, per esempio…
Questo è vero. Proprio adesso sto girando un film in Austria e sui giornali, quando parlano di me, mi identificano ancora con Django…
Credo lei sappia che molti dei suoi western, in Germania si intitolavano Django. Addirittura Il cacciatore di squali uscì come Django…
…Django nella jungla! Persino Il giorno della civetta lo fecero uscire come “Django contro la mafia” (ride). Ma gliel’ho detto, ai distributori tedeschi: «Io ho fatto un solo Django, e dopo 25 anni ne ho fatto un altro. E basta. Siete voi che avete chiamato tutti i miei western, tutti i miei film d’azione, come Django: è un vostro problema…» (ride).
Che ricordi ha di quel set, del lavoro con Corbucci?
Con Corbucci era piacevolissimo lavorare, perché era un regista spiritoso, amava scherzare, era pieno di humour. Diceva al direttore della fotografia: «Illuminatemi bene i “laghetti azzurri” di Franco che mi fanno fare molti soldi»: fu una battuta che passò alla storia. A Corbucci devo molto, in un certo senso. Ho girato tre film western con Sergio, uno più bello dell’altro: Django, Vamos a matar compañeros e Il mercenario. Django ha fatto epoca, e oggi è conservato nel museo di Modern Art di New York. Il mercenario era un western eccezionale, che avrebbe dovuto dirigere Pontecorvo e fu scritto da Solinas e da Vincenzoni. Alberto Grimaldi, il produttore, aveva fatto un contratto a quattro o cinque registi: Fellini per Satyricon, Petri per Un tranquillo posto di campagna, che ho interpretato io, Pontecorvo per Il mercenario e qualcun altro. Insomma, Pontecorvo all’ultimo decide di fare Queimada invece di Il mercenario. È la stessa storia, identica, soltanto che lì c’erano un americano e un nero; però sempre del rapporto tra due uomini si trattava. Il mercenario finisce così nelle mani di Corbucci. Dovevo girare il film in coppia con James Coburn, che allora arrivava da Flint: io sarei stato il messicano e lui l’americano. Ma mi sembra che non ci si mise d’accordo. Corbucci, a quel punto, disse: «Famo così: Franco fa lui l’americano…» che poi venne cambiato in un polacco: il mio personaggio – se ricordate – si chiamava, infatti, Sergej Kovalski. Andammo a vedere un film americano, un piccolo film: New York ore 3, e vedemmo un attore, Tony Musante. Ci siamo detti: «Cazzo, questo sarebbe perfetto come messicano!». Lo prendemmo, pagandolo due lire perché era sconosciutissimo: però gli abbiamo iniziato una grande carriera. Mentre giravamo Il mercenario, mi avevano offerto il film di Patroni Griffi, ma non accettai…
…Metti una sera a cena?
Sì. E non l’ha voluto fare neanche Volontè – dovevamo essere io e lui -, per cui finirono per prendere Trintignant e Musante. È incredibile… vabbe’.
Come mai lei non volle fare il film di Patroni Griffi?
Non lo voglio dire.
E l’altro western, Vamos a matar compañeros…?
…con Tomas: anche quello è stato un film molto divertente. Devo dire che in tutto il mondo, in questi ultimi anni, hanno riscoperto il film di genere italiano. Una casa di distribuzione americana, la Anchor Bay, ha comperato tutti i miei western in video e dvd e stanno andando a ruba, negli Stati Uniti. Quello che va più di tutti è Keoma: la stessa cosa in Giappone, dove hanno fatto riuscire una copia cinematografica di Django, in Germania e in Inghilterra; la cosa più buffa: in Inghilterra! Perché in Inghilterra Django è stato bandito per 25 anni a causa della violenza: non è stato visto. E proprio adesso, ultimamente, l’hanno fatto uscire. Perciò anche tutta la nuova generazione ha riscoperto questo cinema.
Tomas Milian ricordava che in uno dei vostri recenti incontri a Miami, mentre stavate cenando insieme, ad un certo punto lei ha detto a tutti i presenti che la camicia di jeans che indossava le era stata regalata da Tomas ai tempi di Vamos a matar…
È vero! Ero andato a Miami a girare un film che si intitola Il delitto Versace, e ho incontrato Tomas; la prima cosa che mi dice è: «Devi venire a vedermi in teatro…». C’era un teatrino di 40 posti dove lui interpretava una pièce di un’ora, un assolo: si divertiva a recitare in questo piccolo teatrino e devo dire che mi è piaciuto molto. Così ci siamo visti qualche volta, mentre stavo lì a girare e abbiamo cenato insieme. Proprio l’altro giorno ho parlato con lui: «Tomas, io devo fare un western e vorrei che ci stessi anche tu…»; «Io sono vecchio, Franco, ho quasi 70 anni»; «Ma lo so, Tomas, che tu hai dieci anni più di me…» (ride).
Jonathan degli orsi, l’ultimo grande western girato in Italia, in qualche modo ricordava Keoma: c’erano delle analogie, anche iconograficamente i protagonisti erano simili…
Keoma è un mezzo indiano, mentre Jonathan degli orsi è un immigrato polacco, tipico di quell’epoca, che ha vissuto con gli orsi e con gli indiani: perciò era logico che dovessero esserci analogie. Jonathan l’ho voluto fortemente e l’ho anche prodotto. Mi hanno fatto molto soffrire, perché l’avrei voluto realizzare un anno prima di Balla coi lupi. Naturalmente in Italia mi hanno sbattuto tutte le porte in faccia; poi è uscito Balla coi lupi che ha avuto un grande successo… Ma io questo discorso sugli indiani lo volevo già fare. Devo dire che l’unico a crederci è stato Berlusconi, per caso, quando ancora non era in politica. Gli dissi: «Senti, ti voglio dire solo due battute su questo western che vorrei fare…». In cinque minuti gli ho raccontato la storia, lui mi ha stretto la mano e mi ha detto «Va bene!». Devo dire che, in questo, gli devo qualcosa.
Keoma ormai lo si può definire un classico…
È un film strano, nato senza sceneggiatura. La scrivevamo giorno per giorno e poi avevamo un attore italoamericano, Joshua Sinclair… Johnny Loffredo, che ci faceva subito la traduzione in inglese dei dialoghi. Era un film che volevamo fare per parlare della vita e della morte. La vita era una donna e un bambino: la donna incinta che deve partorire, la morte era la strega. Era un film con significati allegorici, simbolici, e penso che ci siamo abbastanza riusciti. Ci abbiamo inserito anche un po’ di Shakespeare: i fratelli che fanno questo grande discorso, quando lui è appeso sulla ruota… beh, è molto shakesperiano.
Lei ha girato molti film con Castellari: a cominciare da La polizia incrimina la legge assolve…
…Che ha iniziato il genere del poliziesco all’italiana. Ebbe un successo strepitoso, non per niente dopo quello hanno fatto duemila film, tutti surrogati. È stato proprio il capostipite. Poi con Enzo abbiamo fatto Il cittadino si ribella, che ha persino anticipato Il giustiziere della notte con Charles Bronson. Difatti, uscirono quasi contemporaneamente, però è stato un caso. Erano forse film anche un po’ di denuncia: perché Castellari, pur nel suo modo di fare cinema d’azione, sotto sotto voleva inserire qualche elemento di denuncia… E poi, subito dopo, che venne? Il giorno del cobra…
Io lo amo moltissimo perché è un film malinconico, stupendo…
Mi è piaciuto molto, il Cobra. Il protagonista ha quest’aria alla Bogart, è un po’ trasandato, mi ricordo con piacere questo detective, Larry Stanziani…
Mi tolga una curiosità: la mano fasciata ce l’aveva perché si era veramente infortunato o…
Sì, mi ero infortunato e avevamo trovato questa scusa. Anche in Autostop rosso sangue io ho la mano infortunata, se guardi bene è fasciata. Perché? Stavo terminando Keoma e, nella scena della cavalcata finale, il cavallo – Peppinello – non mi rispondeva. In un momento d’ira, gli avevo dato un cazzottone, senza sapere che la testa del cavallo è una roccia, e mi ero fracassato una mano. Dopo 4 giorni dovevo iniziare Autostop rosso sangue. Allora ci siamo inventati con Pasquale Festa Campanile questo trucchetto: all’inizio io, nel camping, cadevo per terra e mi infortunavo; così sarei stato giustificato ad avere la mano fasciata in tutto il resto del film.
In Autostop rosso sangue era stato lei a chiamare David Hess per il ruolo…
Avevo fatto un bellissimo film, 21 ore a Monaco, con William Holden, sulle vicende delle Olimpiadi del ’72. E sul set incontrai questo pazzo americano, di origine israeliana. Quando mi offrirono Autostop, mi dissero che cercavano un personaggio strano e visto che volevano girare in inglese, a me venne in mente Hess; dissi: «Fermi! Ho io l’attore giusto»; «Ma ci fidiamo?»; «Fidatevi!». Senza vederlo, presero David Hess, lo fecero venire in Italia e gli fecero fare il film con me.
Qualche anno fa lei ha prodotto il primo film di suo figlio: L’escluso…
È stata un’esperienza molto positiva, perché quando giri con un giovane regista, capisci subito dalle prime inquadrature se sa quello che vuole. Attori come noi, con una certa esperienza, non appena si accorgono che il regista è deboluccio, prendono, come avvoltoi, il controllo della situazione. Ma quando capisci che il regista sa quello che vuole, ti metti nelle sue mani. E mio figlio aveva le idee chiarissime; non per niente gli ho prodotto il film. Sono molto orgoglioso, perché credo sia molto bello: è stato presentato in 18 festival in giro per il mondo, ne ha vinto anche uno. Del libro da cui il film è tratto comperai i diritti, l’autore era James Gabriel Burmann. Giovanissimo, ha scritto questo libro e lo ha pubblicato con una piccola casa. Era appena uscito quando la Time Warner l’ha bloccato e l’ha preso. Difatti in America è poi riuscito per la Time Warner, con delle critiche eccezionali.
Suo figlio nel cinema ha lavorato con lei solo in Il giorno del cobra?
Anche in Il bandito dagli occhi azzurri. E poi fece due piccole apparizioni in Il cacciatore di squali – in un flash, quando viene investito da una macchina – e in La salamandra, quello tratto dal romanzo di Morris Wess.
Quel film non l’ho mai visto: forse in Italia era uscito solo in video, come The Salamander…
C’erano Anthony Quinn, Martin Balsam, Eli Wallach, Christopher Lee. Ma in Italia penso che non lo fecero uscire in sale perché – mi sembra – ebbero problemi con i carabinieri. Credo ci fosse qualche inghippo del genere… Difatti, io lo doppiai dopo quindici anni credo, per l’uscita video.
Un altro regista col quale ha lavorato molto è Damiano Damiani
Con Damiano un attore si trovava bene, perché lui era veramente abile, conosceva a fondo tutto del cinema. E allora – come dicevo prima – quando ci si affida a un regista del genere, è una passeggiata, un piacere lavorarci. Avevo ventun’anni quando l’ho conosciuto. Girava un film che si intitolava La noia, con Horst Bucholtz e Catherine Spaak, e lì avevo due battute, in un bar dove si giocava a biliardo. Mi ricordo che ero ragazzo e il suo aiuto-regista mi portò da Damiano: gli piacqui e mi fece lavorare. Quello è il primissimo ricordo che ho di lui.
Qual è il suo primo film in assoluto?
La prima volta in cui mi sono trovato davanti alla macchina da presa era a Milano. Avevo diciotto anni e mezzo, mi ero appena iscritto all’Università, la Cattolica, e al Piccolo teatro di Milano e nel frattempo avevo un lavoro all’Edison Volta, come ragioniere… pensa un po’ te! (ride). Il peggiore ragioniere al mondo! Incontrai Ermanno Olmi, il quale, sapendo che volevo fare l’attore, mi disse: «Vai subito a Roma! Di corsa». Si era, nel frattempo, sparsa la voce che stavano facendo un film a Milano, con Elsa Martinelli, diretto da Giuseppe Fina. Si intitolava Pelle viva. Tutti i ragazzi andarono a vedere: si girava una scena notturna, dentro una metropolitana. Io ero tra quelli che guardavano e quando Giuseppe Fina mi vide, mi disse: «Tu, vieni qua! Qualche battuta la potresti dire?»; «E perché no?». Mi diedero una paginetta con qualche battuta, che avrei dovuto dire mentre la metropolitana andava. E così feci la mia prima apparizione davanti alla macchina da presa. Ricordo questa metropolitana che andava avanti e indietro, tutta la notte (ride). Il mattino dopo andai in ufficio, mi misi gli occhiali neri, praticamente stavo seduto a dormire. Quando mi chiamavano: «Sparanero!» – io mi chiamo Sparanero di cognome –, mi svegliavo di soprassalto (ride); «Che fai, Sparanero?»; «Eh, sto pensando…». Ero completamente rincoglionito.
Dopo quella prima esperienza venne La ragazza in prestito?
Sì… a dire il vero, prima di quello ci fu anche La Celestina, di Carlo Lizzani. Anche lì era una particina, come poi in La ragazza in prestito. Con Lizzani ricordo che andammo in macchina, vicino al lago di Como e mi fece fare una piccola cosa con Marilù Tolo e Assia Norris. Per La ragazza in prestito fu Giannetti che mi vide e disse: «Sì, sì, io voglio questo! Lui lo deve fare…».
Faceva abitualmente casting, provini?
Io!? Mai! Mai fatto un provino, mai andato in giro con una foto! A Giannetti bastò vedermi e mi disse: «Devi fare il fratello giovane di Rossano Brazzi che si sposa». E feci la scena dello sposalizio, con una ragazza che poi divenne la moglie di Enzo Doria, Gisella… non ricordo il cognome.
Lei ha avuto decine, centinaia di partner femminili. Non le chiedo di sbilanciarsi troppo, ma qual è quella che le ha lasciato il ricordo più profondo?
Beh, la più grande in assoluto, non perché lo dica io ma perchè lo dicono tutti i maggiori drammaturghi americani, da Tennessee Williams a Arthur Miller… la più grande è Vanessa Redgrave, naturalmente. Devo però dire che mi sono sempre trovato bene con tutte le mie partner.
Come spiega questa situazione di totale imbarbarimento del cinema italiano: non si fanno più film di genere…
L’America vive con i film di genere, ricchi, ma tutti film di genere (i vari Die Hard eccetera). Io lo spiego col fatto che – prima di tutto – non ci sono più produttori. I produttori oggi sono i funzionari Rai e Mediaset e le commissioni del Ministero dei Beni Culturali, che decidono loro tutti i giochi. E poi, purtroppo, è stato l’avvento della tv ad ammazzare il cinema; quando dico avvento della televisione, intendo l’avvento della televisione privata, in concorrenza con la televisione pubblica: hanno cominciato a strapagare tutti. Tutti, a quel punto, si sono buttati nella televisione, perché lì ci sono i veri soldi, il produttore non rischia più niente. Il proprietario è Mediaset o la Rai che commissiona il film al produttore, il quale si prende una grossa percentuale sul budget senza rischiare nulla e si porta a casa un sacco di soldi. È soprattutto questo che ha seppellito il nostro cinema.
La sua esperienza televisiva, penso adesso a Il ritorno di Sandokan o a Deserto di fuoco, che impressioni le ha lasciato?
Devo dire la verità: Sandokan l’ho fatto per fare un favore a Castellari. E come compromesso perché volevo avere i soldi per fare un film sul mondo del biliardo. Mi è stato detto da Mediaset-Medusa: «Tu ci fai Sandokan e noi ti diamo i soldi per il tuo film sul biliardo». Non l’avrei mai fatto altrimenti. Difatti, il ruolo non c’era. Volevano che io facessi Yanez… manco morto! Allora, io e Enzo ci siamo inventati questo personaggio, una specie di santone, per stare dentro al film. Come un piccolo compromesso. E sempre un favore a Enzo è stata anche quella piccola parte in Deserto di fuoco.
Il film sul biliardo al quale alludeva è Rank Up?
L’hanno fatto uscire con un titolo che io poi ho contestato, Il tocco. Ma il vero titolo era Colpo da maestro. Me l’hanno un po’ massacrato quel film, anche il regista non ha fatto esattamente quello che avrei voluto io. Va bé, succede…
A proposito di registi: ce n’è stato qualcuno con cui è stato più difficile lavorare?
Succede sempre che ci sia qualche piccolo screzio, è fisiologico. Però io sono abbastanza accomodante. Sono abbastanza filosofo e – credo – abbastanza intelligente. Così mi sono imposto una regola – visto che nessuno di noi si sposa, nel cinema. Dopo due mesi che giri, nel momento in cui risali sull’aereo, o in macchina, o in treno, ti scordi tutto. Vado avanti con questa mia filosofia e devo dire che mi sono sempre trovato bene.
Lei è uno dei pochi attori italiani che attualmente riescono a lavorare ovunque nel mondo. In America, in Europa, in Russia. Qual è il segreto?
Il segreto – come lo chiami tu – lo devo a John Houston, perché è lui che mi ha insegnato l’inglese all’inizio della carriera e mi ha detto anche: «Tu hai un fisico che ti permette di essere italiano, francese, russo…». Credo infatti di avere interpretato personaggi di più di trenta nazionalità differenti. E questo lo devo alla mia faccia, che è forse meno italiana delle facce italiane. Perciò posso essere benissimo russo, svedese, jugoslavo… Ho fatto l’eroe jugoslavo, da poco ho fatto un eroe ungherese in Arpad… Perciò, tutto quello che sono stato e che ho fatto, lo devo anche alla faccia. E poi ho la fortuna di parlare un inglese internazionale, chiamato Middle-Atlantic, e questo mi aiuta molto.
John Houston mi fa venire in mente una domanda: in un film, The Visitors o in italiano Stridulum, in cui lei fa Gesù Cristo…
Lo faccio spesso Gesù Cristo… (ride)
Come mai non risulta accreditato in questo film?
L’ho girato per fare un favore a Giulio Paradisi. Poi, quando mi disse che c’era anche John Houston, lo feci di corsa…
Questa iconografia un po’ mistica l’hai riproposta in diversi film…
Eh, ho fatto Fra Cristoforo in I promessi sposi, Il monaco, scritto da Buñuel…
Pellicola curiosa…
L’avrebbe dovuta dirigere Buñuel in Spagna, però glielo impedirono per questioni religiose. Era tratto dal romanzo di Lewis. Buñuel s’era rotto i coglioni e diede la sceneggiatura ai francesi, i quali volevano Peter O’Toole o Omar Sharif. Buñuel disse che gli avrebbe dato la sceneggiatura ma a una condizione: «Nero deve essere il protagonista», lui non mi chiamava Franco – il motivo è ovvio, avverso com’era al regime spagnolo. Il mio rapporto con lui fu eccezionale, eccezionale. Che devo dire di più?
Parliamo – saltando di palo in frasca – di Die Hard 2: come è capitato in quel film?
Successe in questo modo: il produttore, Joel Silver, andò una volta nell’ufficio del mio agente a Los Angeles, che aveva una collezione dei manifesti dei Paesi dell’Est. Mi chiedeva sempre di procurargliene qualcuno e una volta gliene portai venti, dei miei film (ungheresi, polacchi, cecoslovacchi). Lui li dispose tutti sul muro e il mio nome troneggiavana ovunque. Quando Joel Silver vide questo nome sui manifesti, disse al mio agente: «Fred, do you now him, this guy? I wanna him!», cioè: «Lo voglio!». E così mi chiamò. Poi, ne parlano con il regista Renny Harlin, un finlandese, che scopro essere un mio grandissimo fan, aveva tutti i miei film, era pazzo di me insomma. Mi interpellarono e mi mandarono il copione in Italia. Lo leggo e dico: «Questa è una stronzata». Allora, Joel Silver mi chiama personalmente; gli dico: «Senta Joel, questa è una stronzata, mi dispiace», e gli butto giù il telefono. Lui, offeso: «Tu non sai con chi parli! Io sono il più grande produttore al mondo!»; «Beh, a me non interessa…». Quando tu dici a un americano “non mi interessa”, vanno al manicomio, perché credono di essere i padroni del mondo e qualsiasi cosa dicono tu lo devi fare. Silver mi richiama e io insisto: «Senta, a parte che è una stronzata, ma l’altro motivo per cui ho rifiutato è che io inizio tra una decina di giorni un mio piccolo film, prodotto da me, Diceria dell’untore, dal romanzo di Giuseppe Bufalino. Voglio farmi questo film dove c’è anche Fernando Rey, Vanessa Redgrave e bla bla bla». Lui mi butta giù il telefono. Mi richiama il giorno dopo e mi dice: «Quando devi fare il film?»; «Tra due settimane»; «Per quanto tempo?»; «Ma è un piccolo film, sei settimane…»; «I get back to you» e mi ributta giù il telefono. Mi richiama ancora: «Ok, se io facessi questo: se ti facessi venire tra due giorni, fai quattro o cinque giorni di lavoro, poi ti rimando in Italia a fare your bloody little movie e quando hai finito torni e ti fai il mio film?». Io ho detto: «Ok, ma what about the money? E i soldi?». Allora, a quel punto, ho alzato, ho alzato, ho alzato, finché, quando ho visto che l’importo era molto buono, ho accettato, riuscendo a fare sia Diceria sia Die Hard. Così è la storia.
So che c’è un’altra storia molto divertente dietro L’invincibile ninja…
Vero: mi trovavo nelle Filippine con Franco Cristaldi, Peter O’Toole e Brookie Shield, quella ragazzina che ha fatto il film di Louis Malle. Eravamo ospiti lì. Vedo allora un mio amico, Jud Bernard, produttore, il quale mi dice che aveva iniziato a girare quella mattina, per la regia di non mi ricordo chi, il film Enter the Ninja. Mi disse che la Fox voleva fare un film dal romanzo The Ninja e che cercavano di anticiparla. Avevano ingaggiato il campione del mondo Mike Son. «Bravo, bravo…», gli dico. Fatto sta che dopo due giorni, mentre stavo per tornare in Italia, mi arriva una telefonata di questo Jud Bernard: «Non partire!»; «Come non parto?!»; «Vieni subito in albergo, perché sta arrivando Menahem Golan da Los Angeles…». In pratica, che era successo? Avevano fatto tre giorni di lavoro, il protagonista non sapeva recitare, il film riusciva da cani, e Golan aveva deciso di venire per dirigerselo lui, licenziando sia il regista che Mike Son. Mi fermarono lì e mi dissero: «Vogliamo te!»; «Impossibile! Sto andando a fare un grande film, Victor Victoria, di Edwards»; «Ma sicuro che lo devi fare?»; «Certo, me l’ha detto l’agente, Martin Baum!»; «Chiamiamo Martin Baum», mi dice Golan. Telefonò e venne a sapere che al posto mio avevano preso James Gardner, perché, sebbene Edwards mi volesse e anche Julie Andrews, la Metro aveva imposto il suo attore. Io mi ritrovò lì e dico: «Va bé, facciamo questo film… Un momento, però: devo tornare in Italia perché devo andare a pagare le tasse…». Insomma, per farla breve: mi imbarco sull’aereo alla sera, arrivo in Italia, pago le tasse e riprendo l’aereo alla sera; mi ricordo che appena giunto nelle Filippine, mi fanno girare subito la prima scena, in una piscina, mentre guardo un morto. Ero stravolto! Mike Son, l’ex protagonista, diventò invece il maestro d’armi del film.
Un salto indietro: ricorda volentieri Un tranquillo posto di campagna?
Lo trovo un film che ha anticipato i tempi, come tutti i film di Petri, che considero uno dei più grandi registi italiani, per come girava e come raccontava. Credo che sia l’unico regista italiano ad avere fatto dieci film uno diverso dall’altro, come Kubrick. Mentre gli altri, come Fellini, han sempre fatto gli stessi film alla fine, lui era un camaleonte. Grandissimo. Ricordo che Un tranquillo posto di campagna fu molto duro, dal punto di vista fisico. Eravamo in una villa veneta in cui faceva un freddo terribile, c’erano correnti d’aria ovunque, io stavo malissimo. Ma il risulta era straordinario.
Stiamo sui grandi registi: ha lavorato anche con Tinto Brass…
Drop-out e La vacanza erano piccoli capolavori. Brass era un genialoide: si girava praticamente senza copione. A Londra ci muovevamo con un camioncino, in una troupe piccolissima. Si girava anche ventiquattrore, poi all’improvviso andavamo a mangiare e ubriarcarci e magari il giorno dopo non si girava… Con Tinto era così.
C’è un genere di film che ama meno?
Il genere che amo di meno è quello degli effetti speciali; di tutti ‘sti film, anche gli Star Wars… a me non frega niente.
Non ha girato troppi horror: il primo che mi viene in mente è Il terzo occhio…
Di Mino Guerrini, uomo simpaticissimo. Girammo in pochi giorni e una volta abbiamo lavorammo 48 ore senza mai andare a dormire… tutte le scene finali sulla spiaggia di Latina. Il cinema è anche grandissima fatica.
Se dovesse salvare un film, tra i 145 che ha girato, uno che in qualche modo la rappresenti…
Salvarlo no, però il film che ricordo con più nostalgia e affetto, tra tutti questi, è la Carmen di Prosper Merimée. Perché l’abbiamo fatta con il gruppo di amici con i quali iniziammo quando avevo vent’anni e si facevano i documentari a Salsomaggiore: Vittorio Storaro, i due fratelli Bazzoni e Gianfranco Transunto. Eravamo noi cinque. Quando andai in America, capirai… questi mi chiamarono: «Franco, se tu vieni, noi riusciamo a fare il film…». Ho accettato, ho fatto il film con loro e siamo stati benissimo: era proprio una rimpatriata. Purtroppo, in Italia lo contrabbandarono per un western e mi ricordo che mi fecero mettere un cappello sui manifesti, così che la gente pensasse che era un western. Lo chiamarono: L’uomo, l’orgoglio e la vendetta. Mi dispiacque molto, perché il film era bellissimo.