Intervista a Mattia Temponi: la cultura della paura
Il regista dell'horror apocalittico El Nido riflette sulla paura invisibile del nostro tempo
Nocturno incontra Mattia Temponi, regista dell’opera prima El Nido, horror a sfondo apocalittico che usa il genere per indagare l’animo umano e il concetto di paura odierno.
La prima cosa che ti chiedo è: come mai questa scelta del piano sequenza? Visto che hai parlato di una favola horror significa che c’è un grande senso metaforico dietro a quello che vediamo. Il piano sequenza è una scelta di tuo gusto a livello di tecnica registica?
Il film in realtà non è in piano sequenza, ma ha molte scene immersive. Il discorso è quello di cercare di dare, anche a livello di narrazione, due cose: la sensazione di stare dentro il bunker e di far vedere uno spazio chiuso a 360 gradi. Ma anche mostrare la storia di due persone che si incontrano, una storia molto scarna che ho sempre immaginato come un ballo, come una danza di avvicinamento sospetto. La macchina segue questi movimenti di scambio e avvicinamento, questa è l’idea di base.
Il rapporto tra i due è volutamente metafora del rapporto uomo-donna che può essere molto spesso abusante?
Mi piaceva l’idea di questa storia che ribaltasse un po’ i cliché del genere. Mi stuzzicava l’idea di fare un film in cui lo spettatore sta dalla parte del mostro. E allo stesso tempo, proprio perché è un discorso di favole metaforiche, mi piaceva l’idea che l’horror potesse raccontare non tanto la relazione uomo-donna ma una relazione tossica, andando a scavare le ragioni più profonde del perché a volte ci troviamo invischiati in relazioni simili. L’attenzione è verso i meccanismi manipolatori che portano la vittima a essere tale, una sorta di sindrome di Stoccolma.
La figura degli zombi invece è stata scelta come metafora dell’infetto, dato l’arrivo di una pandemia globale, o per un aspetto più figurativo?
Questa è stata una scelta casuale, nel senso che quando ho iniziato a elaborare il progetto, 5 anni fa, era molto lontano dalla storia di una pandemia, ma virava più sul fantascientifico. Sicuramente ora c’è una chiave di lettura in più, tutto è partito dall’idea dell’infezione, perché sono convinto che lo zombi, l’infetto in generale, sia il mostro del nostro tempo, come nell’età vittoriane sono state la creatura, il vampiro. Lo zombi è l’individuo-massa, siamo noi. L’idea che noi individui, posati e civilizzati, possiamo perdere da un momento all’altro la razionalità racconta molto i nostri tempi, la nostra generazione impaurita da tutto, dall’altro, dal diverso, dalla donna, dall’omosessuale. La malattia diventa il nemico perfetto, perché è il nemico che non vedi. Questa pandemia ha svelato molto la nostra debolezza, perché eravamo tutti colpiti da questo virus che non ha una faccia, un nome, una nazionalità o un genere. L’idea che l’infezione possa colpire chiunque è spaventosa. Io sono dell’84 e mi ricordo che alle elementari c’era una fortissima campagna di sensibilizzazione contro l’AIDS, ed è proprio una cosa che la mia generazione ha vissuto, la paura del virus. Anche se in modo diverso perché si trattava di un virus sessualmente trasmissibile. Ora invece il potenziale nemico diventa anche il vicino di casa, è la paura invisibile del nostro tempo. E l’idea dello zombi si sposa bene con la nostra cultura della paura.
Contrariamente a quello che si vede di solito, un mondo post apocalittico in cui tutto è distrutto, qui c’è una civiltà che l’apocalisse l’ha affrontata e superata, il mondo non è devastato come siamo abituati a vedere o sbaglio?
Si, questo è un ragionamento che ho fatto assieme a Gabriele Gallo e Mattia Puleo che sono i due co-sceneggiatori del film. Noi amanti del genere horror e fantascientifico siamo naturalmente influenzati dagli Stati Uniti, ma ci piaceva l’idea di fare qualcosa che non fosse uno scimmiottamento ma una nostra versione europea. La prima cosa che ci siamo chiesti è stata: se arrivasse da noi un’apocalisse zombi, sarebbe come in The Walking Dead? The Walking Dead diventa un far west, ma noi in Europa non siamo così, lo abbiamo visto. Se arriva la crisi, l’apocalisse, ci irrigidiamo. Le regole diventano più rigide, noi stessi diventiamo più rigidi. Quindi abbiamo iniziato a immaginare una società che non ha superato l’apocalisse ma ha iniziato a considerarla quotidiana, comportandosi di conseguenza, con tanto di bunker, esercitazioni, volontari, portati a considerare una normalità la precarietà della vita. Gli Stati Uniti diventano una terra desolata, noi una fortezza.
Foto in copertina di Emanuela Scarpa