Intervista a Michele Pastrello
Il regista di Inmusclâ, un'opera ibrida che spazia dalle atmosfere horror al cinema fantastico
Nel cinema indipendente nostrano ci sono sguardi che non possono non essere ricambiati. Michele Pastrello non è certo un nome emergente, quanto uno che col cinema di genere ha avuto modo di dialogare più volte negli anni. Da qualche giorno è disponibile sulla piattaforma Chili la sua ultima fatica, Inmusclâ. Un mediometraggio, questo il termine canonicamente più corretto per definirlo, dove una donna affronta un viaggio lungo gli impervi luoghi innevati della Valcellina. Una ricerca che, col passare del tempo, assume sempre più i contorni di un percorso interiore, necessario e fisiologico, tra traumi del passato e ferite mai rimarginate. Un film ibrido, che lega uno stretto rapporto con l’horror e il cinema fantastico in generale ma che ha anche velleità che sconfinano al di fuori dei generi. Un po’ come accadde per un altro titolo di Pastrello, Ultracorpo: un altro ibrido tra corto e medio, tra body horror e film politico-sociale che, dalla sua uscita nel 2011 agli anni immediatamente successivi, destò l’attenzione di molti financo ad essere malamente travisato.
Cosa successe con Ultracorpo? Ricordo comunque che fece parlare molto di sé dopo la sua uscita…
Come è successo anche al mio ultimo lavoro, inizialmente fu cassato da diversi festival. Almeno nell’immediato mi ricordo soltanto una selezione al PiFan, un festival sudcoreano di cinema fantastico. È stato recuperato solo anni dopo: nel 2017 fui invitato al FantaFestival per una retrospettiva che vedeva coinvolti anche Lorenzo Bianchini e altri autori. In generale è stata un’opera un po’ sfortunata. L’avevo concepito come un film veicolante un messaggio politico, citando anche Cruising di William Friedkin. Ancora oggi, su alcuni siti a tematica omosessuale, si può vedere come sia stato bollato come omofobo, quando semplicemente la storia viene raccontata attraverso lo sguardo deformato del protagonista. Un corto circuito che mi sembrava esplicito. Però, nonostante tutto, vedo che regge la prova del tempo.
Va bene, facciamo qualche passo indietro. Come ti avvicini alla regia?
È una bella domanda: non so se sono io che mi sono avvicinato alla regia o lei che si è avvicinata a me. So solo che fin da bambino ho avuto la passione per il cinema e ne ho consumato molto. Avevo proprio la voglia di approfondire quella che era l’opera di un determinato regista. Ho esordito con un cortometraggio che si intitolava Nella mia mente: una cosa che nasceva più per la voglia di mettermi alla prova, ma che alla fine vinse anche al Pesaro Horror Fest ed ebbe anche una recensione proprio su Nocturno. Erano i tempi in cui si mandavano ancora i dvd nelle redazioni specializzate. Ad ogni modo, ho avuto da subito una grande attenzione per gli elementi narrativi e tecnici, ad esempio come e dove posizionare la camera. Ovviamente nei limiti di quelli che sono i mezzi a disposizione.
Nella tua produzione trova molto spazio il genere. È una forma narrativa che trovi spesso congeniale a ciò che vuoi mostrare e raccontare?
È una cosa che effettivamente mi hanno fatto notare, anche e soprattutto nel momento in cui ho cominciato a cambiare strada. Nel 2014 ho realizzato un corto che si chiama Desktop e che in effetti rappresenta una svolta, una sorta di affrancamento dal cinema di genere. Eppure molte persone mi hanno segnalato che, nonostante ciò, continuavano a ravvisare l’elemento fantastico dentro quell’opera. Non era una cosa così voluta, devo dire, ma si vede che ha trovato comunque il modo di emergere. Ci sono due pellicole che mi hanno indubbiamente segnato, tralasciando l’opera di David Lynch: Non aprite quella porta e Dark Water. Sono due film che, attraverso il genere, mi hanno fatto molto riflettere su determinate tematiche. Il primo per il modo in cui racconta una società ai margini e lasciata allo sbando, con il confine tra sanità e malattia mentale che diventa sempre più labile; il secondo per la capacità, attraverso le atmosfere, di portarti a fondo nel tema dell’infanzia vittimizzata dal mondo degli adulti, consapevolmente o meno. La suggestione fantastica di queste e di altre opere è evidentemente rimasta dentro di me ed è chiaro che me la sono portata dietro per riproporla in qualche modo. Diciamo che quello che tocca di più le mie corde è quello che ha in sé un sottotesto.
Passiamo a parlare dunque di Inmusclâ. Mi ha dato da subito l’impressione che sia stata una produzione molto ostica: è stato effettivamente così?
La prima difficoltà che mi viene in mente è in realtà intrinseca al mio modo di fare regia. Sono un regista che fa 2500 inquadrature per poi buttarne via 2000: ne ho comunque bisogno, perché so che in fase di montaggio tutto mi può essere utile. Poi ovviamente bisogna parlare dell’ambientazione: io volevo girare assolutamente in inverno, con tanta neve e senza sole. Per questo ho scelto quella valle, che è soprannominata appunto “Valle del Buio” perché nel primo pomeriggio il sole difatti non c’è. Aldilà del rapporto con l’inverno rigido e della limitazione dei mezzi, è stata l’esperienza di set più bella che mi sia capitata. Abbiamo girato nel 2021, quindi anche in periodo di zona rossa: a giro non c’era anima viva.
Uno degli elementi più interessanti del film è senza dubbio l’uso del clautano (variante del friulano, ndr) nella voce narrante. Era una scelta di partenza?
No, inizialmente la mia idea era proprio quella di fare un film senza dialoghi. Poi ho avuto modo di conoscere questa poetessa, Bianca Borsatti, che appunto scrive in clautano. Una sua poesia in particolare, che si intitola Alla ricerca, sembrava quasi la sinossi della mia opera. Ho avuto proprio la sensazione che coincidesse con quello che stavo mettendo in scena. Quindi ho reso il tutto ancora più criptico, inserendo una lingua che sarebbe apparsa ancora più suggestiva rispetto ad una narrazione in italiano. In più, sentendola parlare, mi è piaciuta ancora di più l’idea di inserirla, dando l’impressione che la voce fosse quella della protagonista da anziana, rimasta ancora lì. L’abbiamo registrata a casa sua, nella sua cucina, perché lei non si sposta mai da dove abita.
La montagna ha un grande ruolo nel tuo film: è un luogo della mente e del ricordo, non si limita ad essere mera ambientazione. Trovi che il cinema italiano sfrutti e racconti poco questi paesaggi?
Nel complesso mi sento di concordare con te. Ho visto che, nell’ultimo periodo, sono usciti film come Piccolo Corpo (anch’esso ambientato nella montagna friulana) e Le otto montagne. Ma ho sempre avuto la sensazione che non si riesca a far respirare l’atmosfera di questi luoghi.
E dal punto di vista prettamente narrativo, l’impressione, alla fine, non è certo quella di una risoluzione…
Alcune persone hanno visto una sorta di pacificazione, ma non è questo che volevo raccontare. C’è piuttosto una pausa: sono convinto che è difficile liberarsi del tutto dalle tossicodipendenze traumatiche e che quindi molte cose restano lì, magari dormienti per un po’. La storia nel complesso è nata in modo abbastanza anarchico: non c’era una vera e propria sceneggiatura e spesso mi sono anche affidato a quello che sentivo quando ero lì. Ma ad un certo punto ho avuto chiaro, nella testa, quello che volevo realizzare. Ci sono stati anche alcuni compromessi da fare, soprattutto a livello di effetti speciali e make-up, ma nell’insieme è andato tutto come doveva andare.
Parlavi della scarsa considerazione dei festival per Inmusclâ e per altre tue opere. Non so se concordi, ma credo che spesso prodotti comunque ottimi fatichino a trovare l’attenzione che meritano più per la loro natura ibrida che per l’effettiva qualità. Spesso si privilegia il genere puro o si rimane troppo attaccati a categorie o a dettagli come la durata, quando si potrebbe anche essere più aperti.
Vivo questa cosa con un po’ di amarezza. Prendiamo l’esempio di Inmusclâ: è un progetto indipendente che comunque riesce ad avere il suo impatto a livello visivo e cerca di raccontare e trasmettere qualcosa anche senza l’uso dei dialoghi. Tutto ciò però sembra ininfluente per molti festival: alcuni non lo guardano neanche perché, poi, vedi che il contatore è a zero minuti. Sicuramente la forma del mediometraggio, così come l’ibrido di genere, in quei contesti alla fine trovano poco spazio. Io amo l’ibridazione, ma a seconda delle situazioni ti viene detto che il tuo film è troppo sperimentale, o troppo di genere. La contaminazione evidentemente spiazza troppo le persone, anche se devo dire che alle proiezioni che abbiamo fatto finora ho avuto ritorni molto soddisfacenti. Quindi tendo a pensare che ci sia un pubblico anche per questo tipo di prodotti.
È sempre un problema prettamente italiano, questa non apertura all’ibrido?
Credo di sì. E, ripeto, penso che gli spettatori invece siano interessati a vedere qualcosa che vada anche al di fuori dei canoni: un thriller senza il whodunit, per esempio. Io ho provato a fare qualcosa del genere: un film misterioso che poi voleva anche comunicare qualcosa. Vedremo cosa riserverà il futuro.
Ecco, cosa c’è nel tuo futuro in quanto a progetti?
A fine settembre ho finito di girare e sto finendo di montare un cortometraggio horror puro: una ghost story, per la precisione, che provvisoriamente si intitola Non deludermi. Gli attori saranno Lorena Trevisan, già protagonista di Inmusclâ, e lo scrittore maniaghese Emiliano Grisostolo. Dopo tantissimo tempo ho deciso di tornare al genere, ma è stato un puro caso. Il mio obiettivo principale è quello di girare il mio primo lungometraggio, che sarà invece qualcosa di più vicino ad Inmusclâ. Ho detto alla morte di aspettare il momento in cui riuscirò a portare a termine questo progetto.