Intervista a Vanni Santoni
La letteratura fantasy e le mode passeggere
Partiamo dai due romanzi in cui tratti in maniera più diretta la cultura del fantastico: L’impero del sogno e La stanza profonda. C’è tutta una produzione culturale che va dal gioco di ruolo, alla Stratelibri e a Magic, quale impatto ha avuto sulla cultura degli anni ’90 l’immaginario legato a questa produzione?
Per me quegli immaginarî sono stati centrali, ci sono del resto quei libri a testimoniarlo. Per me e per molti altri della mia generazione, e tuttavia bisogna anche avere l’onestà intellettuale di riconoscere che si è trattato di una nicchia, che solo oggi diventa mainstream. Lo dimostra il fatto che negli anni ’90, quando venivamo qua a Lucca (l’intervista è stata raccolta a Lucca Comics & Games, NdA), quando il festival contava trentamila presenze, un decimo di oggi, era considerato un grande successo. Dall’altro lato era una nicchia che impattava una generazione precisa, che oggi è adulta e quindi ha fatto “passare” tali immaginari. Ricordiamo bene che un tempo i giochi di ruolo, le carte Magic, il fantasy e la fantascienza, erano considerati “roba da sfigati”: oggi, semplicemente, sono la cultura pop.
Per quanto i tuoi protagonisti, al di là del fatto che avevano questi hobby, erano di fatto ragazzi normali: canne, morosa e via dicendo, non erano veri e propri emarginati.
Non so come fosse nelle grandi città ma in provincia la nicchia era trasversale perché in provincia non c’era sostanzialmente nulla, così ogni opportunità di fare qualcosa di interessante veniva colta, per questo i nostri gruppi erano trasversali: c’era il nerd, c’era l’outcast (di vari tipi: eravamo specializzati in outcast, nella provincia anni ‘90) e c’era il ragazzo più ordinario. In questo i giochi di ruolo erano molto simili ai rave della prima ora, quando, molto tempo prima che il “raver” si definisse e risemantizzasse determinati abiti, comportamenti, modi di fare, erano luoghi di alterità rispetto alla cultura dominante del tutto trasversali. Erano entrembi un modo per difendersi dalla “wasteland”, dal vuoto esistenziale della provincia.
Sempre riguardo a Muro di Casse, visto che poi volevo arrivare proprio lì, qual è la tua visione della cultura alternativa degli anni ’90, gli anni di Torazine Magazine, dove c’era un certo livello di elaborazione in ambiti quali i centri sociali ma non soltanto.
Quello, per quanto riguarda l’Italia, è un discorso abbastanza complesso. Quando le carovane dei raver arrivarono dalla Francia e dall’Inghilterra, in Italia trovarono qualcosa di particolare: in Francia tutti i contesti intermedi fra la T.A.Z. e la società ufficiale erano già stati smantellati, nessun cascame del maggio francese era durato trent’anni. Non c’erano spazi di aggregazione alternativa, e anche per questo la free tekno lì è andata subito così forte. Da noi – semplifico – il ’77 e l’operaismo hanno invece lasciato tutta una serie di occupazioni e di pratiche di lotta che avevano come si suol dire affinità e divergenze con questi matti che vivevano sui furgoni e montavano impianti nelle fabbriche abbandonate. Quando sono comparsi da noi, una parte del movimento li ha rifiutati in quanto collegavano – in modo molto miope – il movimento rave alla discoteca, quando in realtà lo scopo dei raver era salvare la dimensione dionisiaca della musica elettronica e del ballo tirandola fuori da quel contesto di merda – a pagamento, sessista, discriminatorio e addirittura dotato di “guardie” – che era quello della discoteca, dove si riproducono tutte le dinamiche peggiori della società esterna. In alcuni spazi il fraintendimento fu pieno, la gente era abituata ad ascoltarsi il cantautore militante o i canti dei partigiani, e quando sentiva techno o trance andava in cortocircuito. Anche sulle sostanze, non tutti realizzavano che gli psichedelici e gli entactogeni dei raver, non dando dipendenza e avendo un basso potenziale tossico, sono droghe leggere a ogni effetto, e anche questo contribuiva a creare fraintendimenti. Altri spazi, invece, furono ricettivi: a Torino, a Milano a Roma e soprattutto a Bologna si creò una fusione interessante, le istanze free tekno si fusero con quelle del movimento sul territorio, dando vita a molte esperienze importanti. Il cyberpunk italiano, poi, non aspettava altro: l’estetica di riferimento dei raver stava a metà fra il cyberpunk e il postapocalittico, e per ragioni ben precise, a livello di immaginario la fine della civiltà – si balla sulle macerie – era centrale; a livello di pratiche, la riappropriazione dei mezzi tecnologici era addirittura la premessa: il rave lo fai se hai la portabilità dei piatti, del mixer, del computer e degli amplificatori, quindi è il sopraggiungere di determinate condizioni tecnologiche che rende possibile quel tipo di autogestione. Riviste come Torazine o Decoder si inserivano perfettamente, in modi diversi, in tale corrente.
Tornando alla cultura del fantastico, qual è la differenza fra quella che racconti nei tuoi romanzi e quella di oggi?
E’ cambiato tutto, soprattutto per le ragioni dette prima. Tutti quegli immaginari, che sono anche diversissimi – è addirittura curioso pensare che per anni si sono messi sotto lo stesso cappello fantasy, sci-fi, supereroi, GdR, LARP, carte, videogame, un certo cinema, etc.) – sono diventati mainstream, fino a costituire una parte consistente della cultura pop. Non ha più alcun senso parlare di nicchie, e probabilmente neanche di nerdom, quando in TV c’è il Trono di spade o Stranger Things e qualunque bambino si legge Harry Potter. Non è più una nicchia in nessun caso, è cultura pop. Questo pone nuovi problemi, perché – esattamente come quando la cultura rave è stata “cooptata” e hanno cominciato a spuntare biechi eventi a pagamento e sponsorizzati, mantenendo in parte l’aspetto esperienziale ma disinnescando gli elementi più politici – quando l’immaginario nerd in senso ampio diventa parte della cultura mainstream, inevitabilmente perde potenzial sovversivo. Non sono, credo, l’unico ad aver provato una sensazione terribile nel vedere che 4chan era diventato un “breeding ground” dell’Alt-right. Nel momento in cui si perde l’alterità, si rischia di diventare strumento di processi più generali che non necessariamente ci piacciono.
Nella tua attività di curatore, quale idea di letteratura porti avanti?
Per quanto nelle prime interviste rilasciate al lancio della collana parlavo di sconfinamento e di rottura delle barriere fra i generi, e per quanto tale caratteristica sia riscontrabile in molti dei nostri libri, la verità è che mi sono sempre attenuto a una sola regola: prendere i libri scritti meglio fra quelli che trovavo. Sembra una cosa banale, ma non lo è: a volte l’editoria segue altre logiche, segue l’hype o il fenomeno del momento, o ancora cerca di imitare ciò che vende. Incidentalmente, ma credo non casualmente, i migliori libri che trovavo avevano quasi sempre questo elemento di sconfinamento, fin dall’inizio. Stalin+Bianca di Iacopo Barison, che di fatto era un melò adolescenziale, aveva anche un’ambientazione distopica; Lo Scuru di Orazio Labbate si rifaceva alla grande tradizione letteraria siciliana dei D’Arrigo o dei Bufalino ma era anche un romanzo horror, e così via: credo sia sbagliato considerare il Novo Sconcertante Italico o le distopie come sottogeneri, sono proprio tendenze generali della nostra narrativa, oggi quasi qualunque romanzo di cosiddetta “literary fiction” andrà a toccarsi o a intersecarsi con vari generi, perché? Perché il realismo non basta più a dire “tutta la verità”, e perché noi, che questi libri li scriviamo, abbiamo frequentato quei generi e certe compartimentazioni, che del resto si rifanno a vecchie teorie estetiche (o a un fraintendimento tra letteratura e editoria, anzi distribuzione libraria e conseguente etichettazione) non le sentiamo più in alcun modo.
Il senso della letteratura fantastica oggi – nonostante tu mi dica di essere contro le divisioni fra i generi – e il senso della divisione fra letteratura alta e letteratura commerciale.
A livello letterario, le distinzioni tra generi sono prive di senso, e non tanto perché ormai siamo entrati in un’epoca di costanti ibridazioni, ma perché conta solo la qualità, che ovviamente non dipende dai temi o dall’ambientazione di un libro. All’origine di tutto c’è la confusione fra un fatto letterario che non esiste, e un fatto editoriale che invece esiste. È vero che se si pesca a caso nello scaffale dei gialli, o in quello del fantasy, solo per citare due generi oggi in voga, è più probabile beccare un brutto libro, un romanzaccio commerciale scritto con una lingua derivativa e senza nerbo, rispetto ad altri scaffali. Perché esistono tante brutte cose di genere? Perché quando un genere va di moda, e vende, gli editori spalancano le porte e sovraproducono quel tipo di libro: il noir va di moda? Ecco che arrivano in libreria decine di noir ignobili, ma ciò mica toglie valore a Ellroy. Il fraintendimento sta qui: vedere cattiva letteratura o prodotti bassi laddove ci sono dei parametri “di genere”. In realtà è solo che quando i generi sono popolari, si sovraproduce e arriva di conseguenza molto materiale di scarsa qualità.
Quanto al senso della letteratura fantastica oggi, io credo – al di là di ciò che amiamo e che ci ha appassionati – che si stia tornando a una sorta di post-materialismo, nel senso che il realismo sta mostrando la corda rispetto alla propria capacità di raccontare il mondo che ci circonda. Penso alle parole di William Gibson, che ho recentemente intervistato: io mi sono messo a fare distopia per fare del realismo. Anche le declinazioni più “alte” dello “strano” sembrano voler soddisfare tale esigenza. Questa cosa è molto vera, è quanto diceva Borges: a volte per parlare dell’indicibile, di quanto non abbiamo ancora completamente afferrato e magari non afferreremo mai, occorrono emblemi. Ecco, un mondo di enorme complessità come il nostro il realismo mostra la corda non perché siano arrivati i draghi o la psicostoria, ma perché prendere un solo frammento non solo non dà più l’idea del tutto, ma rischia di non essere neanche coerente a sé, come lo poteva essere, mettiamo, il contesto sociale raccontato da un Tolstoj. Lo dimostra il fatto che già ai tempi del modernismo per cercare di fare una cosa che davvero “la dicesse tutta”, Proust ha dovuto fare sette libri, Joyce ha dovuto fare un libro totalmente esploso con una quantità impressionante di voci e di rumori di fondo, e Kafka ha dovuto ricorrere a dispositivi fantastici, questo perché la società stava già sfuggendo di mano, il mondo stava già diventando sovracomplesso allora, figurarsi oggi. Nuovamente, il fantastico e l’immaginario potrebbero essere gli strumenti per abbracciare una narrazione più ampia.
Un’ultima domanda, qual è secondo te il futuro della letteratura?
La domanda è – ovviamente – molto complessa. Il futuro a lungo termine non si può prevedere. Certamente io non credo certo alla vulgata ciclicamente riproposta della morte del romanzo o della fine del libro, queste sono tutte cazzate. Il romanzo non è mai stato tanto bene, se non forse nell’800, gode di ottima salute, anzi, è egemone, il fatto che i libri che vanno bene vendano diecimila copie invece che centomila (dividi per cinque per le medie case editrici e dieci per le piccole) è un effetto della “coda lunga” e del cambiamento del mercato, ma anche qui, siamo sicuri che non fosse una bolla quella vissuta dall’editoria fino a qualche anno fa? Sappiamo bene che in passato sono stati scritti capolavori che all’inizio hanno venduto qualche centinaio di copie, e ancora prima si scrivevano capolavori senza che neanche esistesse l’editoria. Anche qui non bisogna fraintendere lo stato della letteratura con le mutazioni del mercato. Il romanzo c’è e sta bene. Cosa si farà sul lungo periodo non si può dire; nel breve vedo, col post-materialismo, un inevitabile ritorno delle metafisiche, autori come Volodine o Cărtărescu o Krasznahorkai o Gospodinov stiano ponendosi di nuovo il problema di come esprimere la metafisica (non sono in narrativa: basti pensare a fumetti come quelli di Jim Woodring o Jesse Jacobs, che vanno nella stessa direzione), credo che questo si ricolleghi a un discorso sui generi e vada anche oltre: si assiste per esempio a una riscoperta dei testi sacri, naturalmente da usare non con devozione ma – utilizzo volutamente un termine mutuato dai GdR – come “sourcebook”.