Intervista e Eli Roth
L’ultimo regista cannibale ci svela i segreti di The Green Inferno
Sembra che tu ti sia messo in una posizione molto realistica per girare The Green Inferno? Come ti sei documentato e su cosa?
Certo, sì, verissimo. Per realizzare alcune scene nel modo più realistico possibile, a partire dalla costruzione del villaggio, mi sono studiato molti documentari del National Geographic degli anni 60 e le abitudini tribali degli indigeni, del Peru, del Brasile del Venezuela. Mi interessava il metodo rituale con cui queste tribù amazzoniche uccidevano nemici e invasori. Ho letto da poco un libro, Savage Harvest sulla scomparsa di Michael Rockafeller in Nuova Guinea nel 1961. Lì è descritta in maniera minuziosa come i Cacciatori di Teste lo uccisero: un colpo alla nuca, poi impalato dal culo fino alla bocca e infine squartato. Era un rituale tipico di quella tribù: identificavano il nemico più robusto, gli cavavano gli occhi e lo tenevano in vita il più possibile per terrorizzare gli altri prigionieri. Quindi anche se nel film le situazioni sono inventate, ho voluto che sembrassero le più realistiche possibile e mi sono basato sulle uccisioni rituali degli invasori di cui ti parlavo prima. Perché, per gli indios, gli studenti sono dei nemici: li ritengono responsabili per il disboscamento della loro giungla e li vedono in uniforme da lavoro, quindi ai loro occhi appaiono come invasori a tutti gli effetti.
Perché il grassone muore per primo?
Hehe… l’ho fatto apposta, perché era il più simpatico e il più buono. Immagino che tutti si aspettassero che fosse l’unico a sopravvivere e invece… (risata): «Nooo…perché proprio lui?». Dalla sua uccisione parte la vera mattanza, ma già in quella scena, durante una proiezione, in Francia, c’è stata una del pubblico che è fuggita dalla sala. Vabbé sono francesi (ride)
Parliamo di come ti è venuta in testa l’idea del film, da dove sei partito…
L’idea era nata col titolo Stoned Cannibals get the Munchies ed era una cosa su cui volevo collaborare con Diablo Cody, la regista e scrittrice di Juno. Siamo diventati amici perché lei ha confessato di essere una grande fan di Hostel 2 e così le ho fatto leggere la prima stesura. Era un progetto folle che mescolava i film che amavo, come Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato o Cannibal Ferox di Umberto Lenzi con dei twist abbastanza assurdi e politicamente scorretti. Diablo mi disse: «Se non fai questo film, te ne pentirai per tutto il resto della tua vita». Poi è uscito il cortometraggio Kony 2012, (che tratta del dramma dei bambini soldato in Africa, prodotto da Invisible Children) e tutto il mondo si è riscoperto buono e sensibile ai problemi del Terzo Mondo. È stato un momento di isteria globale in cui quasi ti costringevano a twittare, postare il video su Facebook e condividerlo su YouTube, perché se non lo facevi eri considerato una persona schifosa. Io mi chiedevo che cazzo stesse succedendo? e mi sono convinto che questo fenomeno virale fosse una cosa un po’ fine a se stessa, creata per diventare famosi e allo stesso tempo dare alla gente un motivo di sentirsi più buoni (ipocritamente). Quindi, alla fine, ho voluto che gli studenti di The Green Inferno somigliassero a quelli che hanno realizzato Kony 2012, cioè gente che sfrutta una causa per farsi pubblicità e diventare popolare su Reddit. A loro non frega nulla di salvare l’Amazzonia; vogliono solo diventare famosi. Insomma, l’idea centrale del film è diventata questa.
Parliamo della censura: hai avuto rogne grosse?
Nel film c’è quasi tutto il materiale girato e non sono dovuto scendere a compromessi, anche perché ormai so come funziona il meccanismo dei rating in America. Mi viene da fare un paragone con Madonna. Ricordate il suo video col crocifisso in fiamme? All’epoca erano tutti scandalizzati. Poi fece un servizio fotografico su Playboy e tutti a dire: «Ehii, Madonna è su Playboy». Poi ha fatto uscire il libro Sex e altre provocazioni, ma ormai la reazione è sempre: «Vabbé…è Madonna». Lo stesso è accaduto con i miei film. All’inizio grandi discussioni sulla violenza, richieste di tagli e cose così. Ma ormai anche i censori si sono abituati e ora dicono: «Vabbéè… è un film di Eli Roth». Quindi sono stato abbastanza bravo a educarli (ride). E poi un film è come una pizza: se esageri con un ingrediente (troppo salamino), ne rovini il sapore. Lo stesso si applica ai film. Gli eccessi fini a sé stessi di violenza e sangue, invece di scioccare, finiscono per rendere il film noioso. Quindi ho cercato di dosare la violenza in maniera molto graduale, con la giusta percentuale di shock in ogni scena, ma mantenendo vivo nello spettatore l’appetito per cosa accadrà in quella successiva. Comunque, sono felice che tutti gli organi di censura o di rating abbiano fatto passare il film senza tagli, perché alla fine anche loro sanno quello che il pubblico si aspetta da un film come The Green Inferno.
Perché proprio adesso un film di cannibali?
Sai, in ambito horror, quello dei cannibali è sempre stato preso come un sotto-genere poco considerato, e trovo questo trattamento ingiusto. Molto è dovuto alla fama che ha accompagnato i classici del passato come Cannibal Holocaust o Cannibal Ferox per la violenza sugli animali. Però la gente sembra dimenticarsi che anche nei classici del western i cavalli cadevano e si rompevano le zampe, condannandoli a essere abbattuti. Ma se uno riesce a superare questo scoglio, si rende conto che i capolavori italiani del genere cannibalico erano film geniali e folli allo stesso tempo. E ho sempre ammirato questa loro follia. Andare in mezzo alla giungla per girare film estremi. È la stessa ammirazione che provo per uno come Werner Herzog, che ha girato capolavori come Aguirre o Fitzcarraldo in location selvagge e in condizioni proibitive. Oppure penso a quello che ha fatto Francis Coppola con Apocalypse Now e Mel Gibson con Apocalypto. Prendiamo Deodato, ad esempio, che si è fatto le ossa prima con Rossellini e poi con Sergio Corbucci. Come si può negare che nel DNA di un film come Cannibal Holocaust contenga sia l’essenza violenta e realistica del neorealismo di Rossellini insieme all’atteggiamento socio-politico così brutale e radicale dei film di Corbucci? Non è un caso che a distanza di più di 30 anni ancora la gente parli di Cannibal Holocaust. Perché era e continua ad essere qualcosa di scioccante, brutale e realistico. E ho voluto anch’io realizzare qualcosa di veramente pericoloso e di non conforme agli standard hollywoodiani. I film horror hollywoodiani oggi sono tutti uguali, standardizzati, le nuove generazioni sembrano vivere solo di Facebook e Twitter e la Foresta amazzonica, nonostante l’attivismo da salotto di questi giovani, sta veramente scomparendo. Quindi, attraverso i personaggi degli studenti, ho voluto fare una critica violenta a questo tipo di attivismo da hashtag, in cui non importa nemmeno conoscere la causa per cui si lotta; basta twittarla allo sfinimento.
Sembra di capire che nel tuo film l’aspetto di critica sociale sia importante.
Sì, per me è molto importante, perché ogni giorno siamo sommersi da campagne di sensibilizzazione per questo o per quello, che siano i baby soldati sfruttati da Kony o le Pussy Riot. Tutto è diventato un hashtag e anche le cause più nobili si sono trasformate in semplice esibizionismo. Alla fine ti domandi: «Ma ti importa veramente della causa per cui combatti o partecipi solo per farti notare»? È l’ipocrisia di questo atteggiamento che non sopporto e che ho voluto mettere alla berlina nel film. E poi mi interessa anche l’aspetto dello scontro tra culture diverse. Cosa succede quando un gruppo di ragazzini che pensano di saperla lunga su come funziona il mondo incontra una popolazione che non ha mai conosciuto la modernità e li percepisce come invasori? In ogni caso, anche se la critica sociale è stata fondamentale per definire i personaggi, ho voluto principalmente realizzare un film che possa essere visto più volte.
Qualche anno fa, mentre stavi preparando Green Inferno, circolava su Internet la voce che Deodato non fosse molto contento che tu rifacessi, o meglio omaggiassi, Cannibal Holocaust…
Guarda, per me Deodato è il massimo. Oltre che un idolo, lo considero come un amico fraterno e ho insistito moltissimo per il suo cammeo in Hostel 2. Quando The Green Inferno è stato presentato in anteprima al festival di Roma, ho voluto che sfilasse sul red carpet al mio fianco e abbiamo passato molto tempo insieme. Nel Bluray italiano uscito da poco di Cannibal Holocaust, c’è un documentario molto bello sul filone cannibalico e, tra le varie interviste, ce n’è una in cui Ruggero in persona mi dice che ha visto The Green Inferno e ha capito che è molto diverso dal suo capolavoro. Riconosce l’omaggio e la mia sincera passione per i suoi film, ma ammette che le similitudini si fermano lì. Ma quello che mi fa più piacere è il fatto che tutti i critici snob che per anni hanno odiato Cannibal Holocaust, adesso lo considerano un capolavoro e odiano il mio film (ride). Grazie a The Green Inferno, adesso anche lui è entrato nel pantheon dei registi da venerare insieme a Rossellini e Corbucci. Sapessi che risate ci siamo fatti con Ruggero quando sono uscite le prime critiche feroci al mio film. Gli ho detto: «Vedi? Grazie a me sei finalmente considerato un maestro», e lui, ridendo, mi fa: «Bene, bene… era l’ora». Comunque, quello che più mi stava a cuore era seguire le orme di maestri come Deodato, Lenzi e Martino, che si sono spinti nella giungla per realizzare quei capolavori, e girare il mio film più audace. Ce l’ho fatta e il mio film è soprattutto un omaggio al loro incredibile coraggio. Così tra qualche anno avrò anch’io mille storie da raccontare su quando mi spinsi nel cuore della giungla per realizzare il mio film di cannibali (ride). E sappiate che non mi perderò mai una sola occasione per tornare, insieme a mia moglie Lorenza, in Italia. Tutta la mia carriera, a partire da Hostel 1 e 2, è un continuo atto d’amore all’Italia e ai suoi grandi maestri come Martino, Deodato, Lenzi o il grande Lucio Fulci, che ho più volte tentato di contattare con sedute spiritiche perché diventasse il mio spirito guida. Ed il fatto che The Green Inferno esca in anteprima mondiale proprio in Italia, è per me un onore, che spero spinga molti americani ad interessarsi sempre più al vostro formidabile cinema del passato.