#iostoacasa: esorcizza la paura con Nocturno
Pandemia - Guida al cinema (anti)batterico - Capitolo 3: Germi Bianchi sul pianeta terra
#iostoacasa e leggo Nocturno – Pandemia – Guida al cinema (anti)batterico – Capitolo 3:
GERMI BIANCHI SUL PIANETA TERRA
Tutto cominciò con Crichton, Michael, scrittore, alla bisogna anche regista. Un suo romanzo, The Andromeda Stain, ha rivoluzionato il concetto di virus applicato alla fantascienza, trasformandolo da semplice mcguffin narrativo (come era, ad esempio nella Guerra dei mondi film) a elemento metaforico. Lo stesso ripreso pochi anni dopo da George A. Romero per La città verrà distrutta all’alba. L’epidemia mortale non propaga da spore, non è veicolata dalle mucche (le quali, comunque, recentemente ne hanno sviluppata una micidiale sempre per colpa dell’uomo, che le nutriva con trite carcasse di animali morti…) ma è la conseguenza di esperimenti tecnologici tutt’altro che pacifici. Nel caso di Crichton, una sonda spaziale lanciata nello spazio per fare ricerche sulle armi batteriologiche si schianta sulla Terra e contamina un paese con un morbo mortale. Quattro scienziati si rintanano in una base segreta per cercare una cura, ma anche per loro non sarà facile… Andromeda (The Andromeda Stain, 1971) di Robert Wise, versione cinematografica del romanzo, risulta ancora più estrema nel riuscito tentativo di trasformare l’immaginazione dello scrittore in visione pura. Wise, ad esempio, e per sua espressa volontà, non ha voluto nulla di troppo futuribile: anche i macchinari, le tute, le armi, i computer che all’epoca potevano apparire puramente fantastici erano invece prototipi perfettamente funzionanti e reali del California Institute of Technology. Come a volere aumentare lo straniamento tecnologico subito dagli uomini. Non è un caso che in una delle scene più forti il sopravvissuto alcolizzato del villaggio scambi i militari con tute e scafandri per alieni. Come nella delirante (in senso buono…) epica di Valerio Evangelisti (il ciclo del “Metallo”), Andromeda mette in scena il morbo come sorta di resistenza estrema al dominio dell’inorganico (la tecnologia, armi comprese). E svela la debolezza delle sovrastrutture umane, che di fronte all’epidemia, non curabile e non controllabile scientificamente, regrediscono a uno stato semiprimitivo. Il film e il libro codificano una serie di stereotipi poi ripresi ed elaborati da filoni anche diversi (come il postatomico, sorta di “atto secondo” rispetto agli immaginari epidemici). Di Andromeda esiste anche una versione televisiva diretta da Mikael Solomon, del 2008, che amplia l’orizzonte aggiungendo molti più personaggi rispetto al film (ricollegandosi in questo modo alla trama del romanzo).
Lo spunto crichtoniano, tra l’altro, è lo stesso alla base di un altro recente fantamovie epidemiologico, Pontypool (2008), del canadese Bruce McDonald, dove a diffondere il contagio (invasamento prima omicida e quindi suicida) è la parola, la phoné. Avessero visto le performances di Carmelo Bene…? Ambientato tutto nella stazione di un’emittente radiofonica, conta già una sorta di clone-remake, Dead Air, di Corbin Bernsen che però rientra nella variante “z”. Occhio per occhio; se il tuo occhio dà scandalo, cavalo; luce dei miei occhi; l’occhio è lo specchio dell’anima. Già, l’occhio, fomite di ogni più segreto bene e di ogni più segreto male. L’occhio, che ci rende ciò che siamo, perché è lo sguardo, l’aktis, il raggio visivo che colpisce gli oggetti e torna indietro donandoci la conoscenza delle cose. A ben vedere noi siamo i nostri occhi, più di quanto non siamo cose evanescenti e quasi fantastiche come la mente, come l’anima. Per questo la paura di perdere gli occhi, la vista, lo sguardo appare tanto tremenda. Senza gli occhi abbiamo il buio, abdichiamo alla chiarità dell’esterno per le tenebre interiori. Quindi, va bene le pestilenze, i vaioli, oggi le Sars e le aviarie: ma si vuol mettere con la tremenditudine di un epidemia di cecità che si abbatta all’improvviso sul mondo? Il cinema ci ha pensato e ha prospettato scenari inquietanti, apocalittici e non tanto per dire. L’ultimo film in ordine di tempo è Blindness (Fernando Meirelles, 2008) dal romanzo di José Saramago, che come tutte le cose interessanti è arrivato in Italia in punta di piedi e non ha fatto una lira. Comincia sommessamente, facendo supporre altro da ciò che poi vedremo. Un giapponese diventa cieco al’improvviso, in una qualsiasi città americana, in una qualsiasi mattina di traffico. Lo seguiamo per un po’ nel dramma, fino a quando arriva da un oculista, Mark Ruffalo, che è il marito di Julienne Moore. Il mattino successivo, anche costui si sveglia senza vederci e altra gente che è passata per il suo studio il giorno prima è diventata cieca: una squillo, un ragazzino, la moglie del giapponese… Contagio, certo. In breve la città, ma si suppone che l’epidemia sia estesa a tutto il mondo, viene militarizzata, entra in vigore la legge marziale e i ciechi li si ammassa in un ex manicomio dal quale non possano uscire infettando gli altri. Tra costoro ci sono Ruffalo e la Moore, che però, per qualche strana ragione, continua a vederci e quindi fa da guida agli altri “appestati”. Nel piccolo universo concentrazionario, i reclusi perdono, oltre che il governo degli sfinteri, anche ogni senso etico e morale: ovunque piscio e merda; si scatenano delle orge; si instaurano fazioni guerreggianti. Tale e quale Nel più alto dei cieli di Silvano Agosti.
È la prima delle due ore in cui si dilunga il film di Fernando Meirelles, che a un certo punto abbandona le angustie del lager per condurre, alla testa della Moore, i ciechi nel mondo esterno, una volta che anche le guardie armate sono sparite, vittime del contagio. E qui ci vengono regalate visioni del post-catastrofe davvero potenti e terribili. Nella sci-fi classica ci aveva pensato Il giorno dei trifidi (1962) a spargere una semina di cecità nel mondo come effetto dell’osservazione di una pioggia di meteoriti – i tempi delle cornee bruciate fissando il sole a causa dell’LSD, erano ancora di là da venire. Day of the Triffids, comunque, onora l’adagio che due sono meglio di uno: così, ad abundantiam, accumula alla cecità dei più la proliferazione e lo scatenamento di certe piante semoventi carnivore che giustificano il titolo italiano, L’invasione dei mostri verdi. Il film è più bello di come ce lo si ricorda e nel tempo ha generato due remake: uno, del 1981, in forma di una serie televisiva in sei episodi; e un altro sull’uscio, sempre inglese e televisivo, con la figlia di Vanessa Redgrave, Joely Richardson, protagonista. L’intuizione, nella pellicola originaria, di marito e moglie biologi intrappolati in un faro in mezzo al mare delle tenebre, che scoprono casualmente che per sciogliere i trifidi basta l’acqua resta comunque insuperata, anche per le icastiche battute che ha il personaggio della donna, Janette Scott: quando lui sta barricando la porta con delle assi, lei medita ad alta voce…: «è come inchiodarsi da soli nella bara». Citazione in limine anche per il film di Leon Klimowsky, Ultimo deseo (1976). Un gruppo di ricconi depravati e cacciatori (c’è Naschy, c’è De Mendoza… i soliti noti) accoppia la passione per l’arte venatoria e per i festini orgiastici, nella location di una casa di campagna, convitate un sacco di bellissime e disponibili puttane (Nadiushka, Teresa Gimpera, Maria Pershy…). Accade però un olocausto nucleare che trasforma tutti coloro che stavano al di fuori del dionisiaco abituro, in surrogati, ciechi, dei morti viventi di Romero. Segue assedio e lotta, all’ultimo sangue, per sopravvivere a queste torme di non vedenti molto incazzosi e molto organizzati che più che zombi sembrano, però, i mutanti con gli occhi bianchi di The Omega Man.