Jurassic Park: la storia della saga
25 anni fa nasceva una saga che ancora oggi resiste all'estinzione
In principio fu il verbo letterario di Michael Crichton, integralmente vergine e non ancora deflorato dall’insidioso membro a doppio taglio dell’entertainment libresco-cinematografico. Correva l’anno 1990 e Steven Spielberg, con ancora le mani nella densa marmellata post produttiva di Hook – Capitan Uncino, già si apprestava a fare la corte all’inedita creatura di carta e inchiostro, dovendosela vedere con accaniti competitors del calibro di Tim Burton, Richard Donner e persino il compagno di merende Joe Dante. E fu così che, tra i sontuosi preparativi del futuro capolavoro che sarà Schindler’s List e quattro chiacchiere al bar a proposito di certe vaghe ideuzze che si sarebbero poi coagulate nel sistema circolatorio di E.R. – Medici in prima linea, iniziò a prender vita quella seminale entità mitologica che sarebbe divenuta Jurassic Park, provvidenziale asteroide audiovisivo pronto a impattare sonoramente contro il brulicante pianeta cinematografico di fine millennio. E dire che, in quel periodo, nessuno pareva propenso a filarsi con particolare interesse dinosauri o altri soggetti giurassici di sorta, men che meno sul grande schermo, dove i reflussi fantasy de La storia infinita e cuginetti minori fuori tempo massimo continuavano a farsi insistentemente sentire. Ma si sa, tanto Spielberg quanto il fido Crichton se ne sono sempre bellamente fottuti di mode e pensieri dominanti, facendo un po’ quel che gli pareva come e quando lo ritenevano più opportuno. Perciò, dopo ben due anni di turbolenta gestazione, giunge infine il momento di dar fiato alle trombe. Dunque bando alle ciance: rimboccarsi le maniche, affidarsi agli esperti consigli del paleontologo Jack Horner e alla comprovata esperienza degli sceneggiatori Malia Scotch Marmo (prima) e David Koepp (poi), intascare i 63 milioni di dollari di budget generosamente (forse incautamente) messi a disposizione dalla Universal e puntare dritto in quel delle Hawaii. Passati i quattro segretissimi mesi di riprese, un altro turbolento annetto si profila all’orizzonte, tra gli innumerevoli tagli di montaggio del fido Michael Kahn, le alchemiche partiture del geniale John Williams e le mirabolanti sperimentazioni computerizzate del team Industrial Light & Magic, più che mai deciso a mandare in pensione la vetusta pratica della stop-motion in favore di un uso finalmente maturo e coerente dell’allora oscura CGI. Ed è proprio durante uno dei blindatissimi screener elaborati dal magico quartetto Wilson–Tippett–Lantieri–Muren che babbo Steven si rende conto per la prima volta di avere tra le mani una creatura viva e del tutto innovativa, capace persino di far impallidire le ingenue sperimentazioni digitali di Tron e di creare sonori complessi d’inferiorità alla tronfia computer graphics di Terminator. E così, raccogliendo la rodata e strategica esperienza promozionale testata dall’amico George Lucas a suo tempo con l’originaria trilogia di Star Wars, con buona pace di critica e pubblico (e con innumerevoli dita di mani e piedi saldamente incrociate), il buon Spielberg si prepara, assieme ai compagni di (s)ventura, a togliere il guinzaglio alla sua creatura per lasciarla libera di scorrazzare sul bianco prato dei 34000 schermi americani. L’11 giugno 1993 – in Italia si dovrà penosamente attendere altri tre mesi –, Jurassic Park inizia a comparire dinnanzi alle iridi sbalordite di un pubblico fino ad allora abituato soltanto alle grossolane performances animatroniche di Gremlins e alle (quelle si) giurassiche avventure in passo-a-uno burtoniane, un audience sicuramente non ancora del tutto pronta a incontrare, con apparente nonchalance, docili Brachiosauri, mastodontici T-rex e scaltri Velociraptor (in realtà Deinonychus antirrhopus, ma in fondo dai, chi se ne frega!) capaci persino di aprire porte e organizzare ansiogeni agguati cucinieri.
KABOOOM!!! 920 milioni di dollari d’incasso planetario (che si sono tramutati in oltre un miliardo con la riedizione in 3D del 2013), primo film in assoluto al Box Office mondiale 1993, tre premi Oscar (Miglior sonoro, Miglior montaggio sonoro e, ovviamente, Migliori effetti speciali), un gradimento superiore al 90% fra critica e pubblico e, infine, un incalcolabile profitto di merchandising collaterale, tra videogiochi (due nel 1993 ad opera di Ocean Software e BlueSky Software), albi illustrati (cinque miniserie edite nel 1993 da Topps Comics), action figure e ammennicoli vari per grandi e piccini. Ma, si sa, il cinema è una brutta bestia (tanto per restare in tema!) e, fin dalle sue origini, non si è mai fatto scrupoli a cavalcare l’onda lunga di prodotti di gran successo, anche a costo di rasentare il plagio o il ridicolo. Ed è appunto a seguito della fortunatissima epopea di Jurassic Park che, più o meno parallelamente, inizia a diffondersi un’autentica jurassic-mania, dando vita a innumerevoli (e spesso imbarazzanti) cloni, tra cui spiccano il trashissimo Carnosaur – La distruzione (diretto, si fa per dire, nel 1993 da Adam Simon in appena una settimana, con immancabile seguito e contro seguito), il franchise semi-amatoriale Dinosaur From the Deep (concepito dal misterioso Norbert Moutier e divenuto tristemente celebre grazie i suoi dinosauri in pura plastica e cartapesta), oltre a Dinosaur Island (1994) di F. Olen Ray e Jim Wynorski, il grottesco Dinosaur Valley Girls (1994) di D.F. Gult (1996) e l’immancabile parodia nostrana ad opera di Jerry Calà con Chicken Park (1994). Ma l’industria dell’entertainment ha anche insegnato a non dormire sugli allori e a spremere fino al midollo le sporadiche galline (anche giurassiche) dalle uova d’oro. Dunque niente indugi e avanti così, squadra che vince non si cambia! Passano gli anni, ma quattro non sono poi così lunghi, e così, sempre appoggiato alle solide spalle letterarie di Crichton – deciso più che mai a pubblicare il secondo romanzo della serie in anticipo rispetto al primo ciak – e con gli occhi della mente ben piantanti al celeberrimo Il mondo perduto (adattamento del famoso romanzo d’avventura di Sir Arthur Conan Doyle, firmato nel 1925 da Harry Hoyt), Spielberg si siede nuovamente dietro alla fida macchina da presa – dopo la temporanea defezione di Joe Johnston, all’epoca impelagato nell’ambizioso progetto di Jumanji (1995) – per sfornare Il mondo perduto – Jurassic Park. Il tiro narrativo viene pericolosamente innalzato, in primis con la scioccante messa in scena dell’attacco di un Compsognathus a un’innocente bambina – eliminato dallo script del primo capitolo perché considerata dallo stesso Spielberg decisamente troppo crudo – e l’ormai iconico assalto di un’intera famiglia di T-rex a un altrettanto inerme fuoristrada.
RI-KABOOOM! Contro ogni più rosea aspettativa, il secondo capitolo del novello franchise giurassico si porta a casa la sorprendente sommetta di 618 milioni di dollari, posizionandosi fra i cento maggiori incassi di ogni tempo e dando vita a un’altrettanto prolifica schiera di prodotti derivati creati ad uopo, tra cui la leggendaria attrazione Jurassic Park – The Ride, in pianta stabile negli Universal Studios sin dal 1996 ma a breve destinata al riposo dei giusti. Forza dunque, battere il ferro finché è caldo! Chi dorme non piglia pesci (e nemmeno quattrini), perciò non c’è tempo da perdere! Richiamare subito all’ordine il propositivo e, ora, finalmente disponibile Johnston e piazzarlo alla guida di una squadra fresca e piena di buone intenzioni. Ed è all’insegna di questo sfrenato e ottimistico entusiasmo che, nel caldo luglio del 2001, vede la luce Jurassic Park III, talmente infarcito di spericolata autostima da non volere alcun sottotitolo di sorta. E qui, purtroppo, i primi grossi calcinacci iniziano indiscutibilmente a cadere. Poco meno di 181 milioni di dollari d’incasso negli Stati Uniti – certo non noccioline ma nemmeno i capponi ripieni dei due precedenti capitoli –, un’accoglienza a dir poco glaciale un po’ ovunque e, dulcis in fundo, persino un’inattesa nomination come peggior remake o sequel ai Razzie Awards 2001. Insomma, un autentico e sonoro disastro su tutti i fronti, tranne forse che sul provvidenziale salvagente del mercato collaterale, deciso più che mai a risollevare le già deprimenti sorti del prodotto con una sonora iniezione di uscite videoludiche (Jurassic Park III – Danger Zone per PC, Jurassic Park III: The DNA Factor per Game Boy Advance e Jurassic Park: Operation Genesis per PS2, PC e Xbox) e una folta edizione di action figure ad opera di Hasbro e LEGO.
Incassato il duro colpo e ingollata di malavoglia l’amara pillola dell’insuccesso, ha purtroppo inizio un’autentica e oscura agonia gestazionale attorno al tanto chiacchierato progetto per un quarto capitolo, sbandierato a gran voce sin dal 2002 per bocca dello stesso Steven (più per paraculaggine che altro) ma giunto a un evidente stallo già al principio del 2009, dopo che, tra il 2003 e il 2005, diverse indiscrezioni (dal sapore alquanto cazzaro) avevano iniziato a fuoriuscire da ogni dove come acqua da uno scolapasta, tirando in ballo persino la suggestiva figura di Alex Proyas al timone di un’ipotetica quanto inattuabile regia. Ben quattordici anni sono dovuti passare prima che la creatura informe, freddamente denominata Jurassic Park IV (o anche Jurassic Park 4, valli un po’ a capire!) cessasse di essere un puro oggetto mitologico, frutto delle masturbazioni fantasiose di schiere di fan speranzosi, e prendesse finalmente la strada dell’essere in facto. E, ancora una volta, è stata la vociona sorniona di babbo Spielberg a rassicurare le folle adoranti, annunciando a sorpresa, durante il San Diego Comic-Con del 2011, che una quarta avventura del franchise avrebbe finalmente visto la luce. Ingaggiate le penne di Mark Protosevich, Rick Jaffa e Amanda Silver (già dietro all’ottimo script de L’alba del pianeta delle scimmie) e chiamato in causa Colin Trevorrow a guidare il tutto, nel 2013 la Universal ufficializza orgogliosamente l’inizio delle riprese di Jurassic World (questo, finalmente, il nuovo titolo) per l’anno a venire, rivelandone la natura al contempo di reboot, sequel e in parte di remake. O tutto o niente, insomma! Ma, si sa, quando il figliol prodigo torna all’ovile, dopo così tanto tempo, è bene fare le cose in grande e con senno. Dunque ben vengano i 150 milioni di dollari di budget, le riprese in 65mm e le ultimissime innovazioni tecnologiche in CGI e motion-capture e un coté di volti (più o meno) freschi e rampanti. Ben venga infine l’audace progetto di mandare in pensione i due grandi jurassic-villians dei precedenti capitoli – ma tranquilli, i fidi Velociraptor rimangono in pole position – in favore di un (letteralmente) mostruoso e apparentemente indistruttibile essere ibrido dall’altisonante nome di Indominus Rex. Ben venga qualunque cosa, basta che si torni a fare il botto.
E, in effetti, Jurassic World il botto l’ha fatto eccome! Distribuito nelle sale americane a partire dal 12 giungo 2015 (in Italia, straordinariamente, ce lo siamo goduti con un giorno di anticipo) dopo una bombardante e curatissima campagna promozionale durata oltre un anno, il film ha polverizzato qualunque precedente record d’incassi, portandosi a casa ben 511 milioni di dollari globali nei soli primi tre giorni di programmazione e abbattendo il muro del miliardo di dollari dopo appena tredici giorni, divenendo il quarto film con il maggior incasso dell’intera storia del cinema, nonché, ovviamente, il capitolo più remunerativo dell’intero franchise giurassico. Ma la cosa in assoluto più importante è che Jurassic World è piaciuto (e anche parecchio!) tanto alla sempre sospettosa critica quanto all’altrettanto difficile palato dei fan, questi ultimi finalmente raggianti nel vedere il loro beniamino tornato agli antichi fasti di un tempo e capace persino, in una certa qual misura, di superarli. Ma ora che si fa? La storia ci ha insegnato che, tirando troppo la corda, senza avere sale in zucca e un poco di lungimiranza, si rischia di buttare alle ortiche quanto di buono si è fatto. Dunque, nell’attesa che l’annunciato sequel Jurassic World – Il regno distrutto (con già all’attivo un ulteriore proseguo in programmazione per il 2021) illumini col suo caldo raggio gli schemi della nostra mente e del nostro cuore nel caldo giugno del 2018, non resta che sperare che la squadra capitanata nientepopodimenoche da Juan Antonio Bayona abbia fatto i propri conti e abbia opportunamente pianificato qualche gradita e provvidenziale sorpresa. Staremo a vedere, speranzosi che nessun’altra meteora impazzita si abbatta sul nostro amato universo giurassico con il rischio, questa volta si, di causarne la definitiva estinzione.