Kung-Fu master: intervista a Christian Bachini
Intervista a Christian Bachini, star del cinema d'azione in Cina
Christian Bachini: un italiano in Cina ci racconta come si fa a diventare una star del cinema d’azione nella patria stessa del cinema d’azione più veloce e adrenalinico del mondo.
L’idea di esportare il talento italiano a livello internazionale è la nostra mission, e siamo molto contenti di poter parlare con un attore italiano che ha deciso di fare la stessa cosa con il cinema di arti marziali. Anche se la domanda è scontata, puoi raccontarci come è nata questa passione?
La mia passione per le arti marziali e il cinema a esse legato è nata da un processo molto complesso. Sin da piccolissimo, ti parlo di quattro o cinque anni, ero affascinato da tutto ciò che era in qualche modo legato al rischio e all’adrenalina. Mi ricordo che all’epoca, nonostante la mia età, ero un grande divoratore di film action come Die Hard o Commando, di poliziotteschi all’italiana e spaghetti western, complice anche mio padre che ne era grande appassionato e che mi accompagnava, diciamo così, alla scoperta di questi generi nonostante i rimproveri di mia madre che considerava questi film troppo violenti e, soprattutto, temeva avrebbero potuto influenzarmi in modo negativo. Io però alla violenza non facevo neanche molto caso, la cosa di questi film che mi appassionava maggiormente, appunto, erano le scene d’azione, dove l’eroe di turno si trovava a compiere evoluzioni incredibili in auto, coinvolto in sparatorie pazzesche e via dicendo. Così, come ogni bambino dotato di grande fantasia, iniziai a pensare che da grande avrei anche io voluto svolgere un mestiere all’insegna del pericolo. Il poliziotto, l’agente segreto, poi il detective privato. Questi erano i lavori che sognavo, convinto, nella mia giovane mente che, nella realtà, questi mestieri fossero altrettanto eccitanti. Però sin dal principio, oltre ai mille sogni da bambino, immagino il mio lato più artistico già stesse iniziando a fare capolino. Perchè dico questo? Perché c’era una cosa che mi lasciava perplesso. I combattimenti a mani nude in quei film erano troppo semplicistici. Magnificamente realizzati intendiamoci, ma in qualche modo sentivo che le abilità del fisico umano potevano spingersi sicuramente al di la di semplici pugni o testate e di sicuro quelle scene potevano essere rese ancora più emozionanti. Diciamo che era un pò una mia intuizione. Così mentre mia madre era impegnata in cucina e mio padre era a lavoro, io mi scatenavo sul loro letto, ruzzolando e tirando calci inventati cercando di dare vita a vere e proprie sequenze di lotta dove io passavo dall’interpretare l’eroe a interpretare i cattivi e viceversa.
All’epoca non avevo idea di cosa significasse il termine coreografia ma immagino che la mia vena creativa sia nata proprio durante quei momenti. In ogni caso passò un pò di tempo e più o meno quando avevo otto anni, se non ricordo male, mi trovai a seguire alcune serie gialle nelle quali il detective protagonista non compiva alcuna azione. Tutto si basava sull’indagine e la deduzione. Niente adrenalina. E li nacque un dubbio. Mi ritrovai a pensare…non è che nella realtà quei mestieri che sognavo erano assolutamente l’opposto di quello che vedevo nei film d’azione? Ero ancora piccolo ma mi fu facile capire quale era la distinzione tra fiction e vita reale. Iniziai a pensare che, forse, un poliziotto raramente si trova a saltare sul tetto di una macchina in corsa o un agente segreto di sicuro non vive una vita come il James Bond di Sean Connery. Quale sarebbe stato allora un lavoro che poteva darmi quelle scariche di adrenalina che sognavo da anni? Può sembrare assurdo che un bambino possa mettersi a pensare a cose del genere ma ti posso assicurare che durante quel periodo questo quesito era diventato un vero e proprio assillo per me. Mi sentivo come perso. Poi, finalmente, la rivelazione, anzi la doppia rivelazione. Non ricordo bene come, ma entrai in possesso di una videocassetta di un film di Hong Kong intitolato Supercop. Il protagonista un uomo di nome Jackie Chan, a quel tempo a me del tutto sconosciuto. Posso dire che quel film cambiò la mia vita per sempre. Aveva tutto! Scene d’azione incredibili. Quel misterioso attore cinese, senza usare controfigure né effetti speciali, si lanciava dai tetti dei palazzi appendendosi a elicotteri in volo, sopravviveva a esplosioni gigantesche e combatteva sui tetti di treni lanciati a velocità folle. E li stava la chiave….combatteva come nessun altro avevo mai visto combattere prima. Non i soliti pugni, ma calci spettacolari, capriole, proiezioni. In un solo film avevo ritrovato quell’azione di cui ero tanto amante unita a quell’uso del corpo umano portato all’estremo che immaginavo da tempo. Come si chiamava quell’arte di cui quell’attore orientale sembrava essere grande esperto? Da dove proveniva quel film? Che genere era? E, come si dice: da cosa nacque cosa… e il resto, potrei dire, è storia.
Divenni un grande appassionato di kung fu movies, scoprii Bruce Lee (che paradossalmente per me venne dopo aver scoperto Jackie Chan), iniziai a divorare pellicole di Gordon Liu, di Alexander Fu Sheng, di registi come Chang Cheh, e poi pellicole d’azione di Hong Kong, da John Woo e i suoi heroic bloodshed con Chow Yun Fat ai mitici Wuxia, e via dicendo. Di fronte ai miei occhi si aprì un mondo vastissimo e del tutto inedito, un mondo dove gli stuntmen rischiavano veramente la vita sui set. Ed in quel mondo trovai, infine, la risposta al mio quesito. Quale era un lavoro nel quale avrei potuto vivere emozioni forti, allenare il mio corpo per compiere azioni che la maggior parte delle persone non sono in grado di eseguire, e, sopratutto, un mondo dove poter dare sfogo alla mia vena creativa? Semplice, diventare un attore di film d’azione e di arti marziali in Oriente. Decisi immediatamente che da grande sarei voluto diventare un successore di quelle star orientali. Avevo circa nove anni, ma il mio piano era gia definito. Iniziai a praticare svariate arti marziali, finendo poi per focalizzarmi sul kung fu cinese che divenne per me più di uno sport, ma un vero e proprio stile di vita, ed iniziai a studiare i film orientali per apprenderne tutti i trucchi e segreti, il tutto per prepararmi al meglio ed in futuro trasferirmi in Asia per cercare di diventare un attore di kung fu movies.
Hai una formazione sia da attore che da artista marziale: nella tradizione orientale abbiamo visto poche figure che hanno fatto tendenzialmente prevalere le loro capacità di combattenti rispetto a quelle recitative. Qual è il tuo approccio in questo difficile equilibrio?
Questa è una domanda interessante. Spesso si sente dire di come gli attori di film di arti marziali siano degli ottimi atleti e combattenti ma dei mediocri, se non addirittura pessimi, attori. Anche Schwarzenegger è noto per i suoi muscoli e la sua stazza, non certo per le sue qualità recitative. È un pò un dato che viene dato per scontato. Un attore di film di arti marziali avrà di sicuro poche, se non praticamente zero chance di vincere un oscar. Io però ho sempre considerato l’arte recitativa molto importate per il semplice motivo che non ho mai amato troppo in un film l’azione fine a se stessa. L’azione è la cornice all’interno della quale sono racchiuse le emozioni, le storie e i drammi dei personaggi coinvolti. Non deve essere mai fredda, perché altrimenti si perde il suo senso di epicità, il suo senso di necessità. Il più classico degli esempi di ciò che dico potrebbe essere un film che ruota intorno a una storia di vendetta ma per il cui protagonista il pubblico non prova assolutamente nessun sentimento di affetto e, quindi, ha difficoltà a identificarsi nel suo personaggio. La vendetta perde tutto il suo sapore. Sono i film del passato che ci ricordano come queste storie debbano essere create e scolpite, plasmate quasi, fianco a fianco delle scene di combattimento. Chang Cheh credo sia stato un grande esempio con la sua epopea dello spadaccino monco. Quando lo spadaccino nel finale dei film, spinto da mille soprusi e dalla violenza scatenata dai cattivi di turno, si trovava costretto a combattere a scapito della sua menomazione, in quel momento tu ti sentivi eccitato, arrabbiato come lo era lui. Fatta questa premessa si capisce l’importanza dell’arte recitativa. Un bravo, se non ottimo, attore, deve riuscire, tramite il suo bagaglio di tecniche recitative, a portare sullo schermo quelle emozioni necessarie a far sì che lo spettatore tifi per lui, pianga con lui nei momenti di disperazione, e si arrabbi con lui quando il momento di fare giustizia finalmente arriva. Recitazione e abilità marziale a quel punto arrivano a fondersi in un connubio unico. Per questa mia consapevolezza, oltre ad allenarmi nelle arti marziali decisi anche di dedicarmi con serietà allo studio della recitazione, della regia e di tutti gli aspetti che esistono dietro le quinte di un film.
Non volevo arrivare in Cina e presentarmi come un saltimbanco o un esaltato a cui piace solo tirare calci a destra e sinistra. Volevo presentarmi come un attore professionista che ha scelto come genere cinematografico quello d’azione ed arti marziali. E credo che in parte sia stato proprio questo mio asso nella manica a facilitarmi nel percorso e a portarmi al traguardo che ho raggiunto. Quindi non importa quanto una sceneggiatura sia complicata, quanto un ruolo sia difficile ed impegnativo, fa parte del mio mestiere mettere anima e corpo nella cura del personaggio così come la metto nella pratica delle arti marziali e nella realizzazione delle scene di lotta. Infatti uno dei film di cui sono ancora oggi molto orgoglioso è un film in cui io interpretavo un protagonista sordomuto. Non potevo parlare, dovevo immaginare di essere isolato dal mondo per la mia impossibilità di udire le parole degli altri. Potevo contare solo sulla mia mimica facciale e sul mio sguardo. Di quel ruolo sono ancora oggi orgogliosissimo.
Finora hai lavorato a film interamente prodotti in Cina: hai sempre pensato di rivolgerti a quel mercato o hai provato a realizzare dei film action prodotti esclusivamente in Italia?
Hai ragione, tutti i miei film finora sono stati prodotti interamente in Cina. Nessuno escluso. Per questo oggi posso considerarmi praticamente un attore “cinese” a tutti gli effetti. Venendo alla domanda, onestamente ho sempre saputo che una volta sentitomi pronto mi sarei rivolto al mercato cinese. Per due motivi fondamentali. Il primo è che mentre molti attori giovani guardano ad Hollywood come meta d’arrivo e sognano di diventare star in America, io ho sempre desiderato il contrario. Il mio sogno era diventare un attore in Oriente. Volevo esser il primo occidentale a sfondare a 360% in un mercato orientale. Il secondo motivo per cui ho scelto la Cina e non Hong Kong ad esempio, è stato prima di tutto il fatto che la Cina è la vera patria delle arti marziali tradizionali. Quelle arti sono nate e si sono sviluppate qui e sono ancora oggi molto radicate all’interno della cultura cinese. Il 90% dei film e delle serie Tv cinesi non arrivano al di fuori dei confini del Paese ma ti posso assicurare che in Cina il kung fu, il genere di cappa e spada, l’azione, va ancora più di moda che a Hong Kong stessa. Sono elementi insiti nel sangue dei produttori. Anche in una soap opera trova sempre posto il duello all’arma bianca per esempio. Il terzo motivo per cui ho scelto la Cina è che rappresentava una sfida impossibile per ovvi motivi. Molti attori occidentali, Chuck Norris, Van Damme etc, hanno avuto delle brevi parentesi di lavoro in Oriente, ma tutti nel cinema hongkonghese. Negli anni Ottanta allo stesso modo, attori come Richard Norton o Cynthia Rothrock hanno avviato la loro carriera a Hong Kong, per il fatto che Hong Kong è da sempre stata internazionale e molto aperta all’Occidente. In Cina invece usare un attore occidentale in ruoli da protagonista o da buono, all’interno di film di arti marziali specialmente, è da sempre stato un tabù indistruttibile, almeno fino al mio arrivo. Mai si sarebbe potuto pensare a un non cinese che si batteva a colpi di kung fu e vinceva contro i cinesi stessi. Il mio amore per la Cina, la mia grande passione per la cultura cinese in generale, e ovviamente un pò di fortuna e tanta ma tanta umiltà i primi tempi in cui iniziavo ad affacciarmi nel mondo cinematografico cinese, per fortuna alla fine hanno fatto una grande differenza per me.
Come mai credi che il cinema di genere in Italia sia stato abbandonato? Ne prevedi una rinascita nostrana? O l’unica strada è la coproduzione?
La risposta a questa domanda per certi aspetti può sembrare molto semplice, ma dopo il mio recente viaggio come invitato al Festival di Roma questo Ottobre, e dopo vari meeting con dei produttori italiani mi sono accorto che la questione è molto complessa e le ragioni dietro alla scomparsa del nostro glorioso cinema d’azione degli anni ’70 o ’80 sono varie e molto delicate. Riguardo la rinascita di questo genere di cinema però non ho alcun dubbio. Il tempo potrei dire è arrivato. L’Italia oggi ha bisogno solo di qualcuno che la guidi nuovamente alla scoperta di cosa significa fare film d’azione e che faccia capire come il genere sia ancora amatissimo dal pubblico italiano. Una volta che questo accadrà sono sicuro che il Italia saremo testimoni di questa storica rinascita. Io mi sto impegnando proprio in questo senso e perchè questo è il mio secondo grande obiettivo del mio percorso professionale. Voglio essere la miccia che darà di nuovo la carica al nostro cinema e, per ricollegarmi alla tua domanda, onde far si che ciò accada la strada della co-produzione in un primo momento è importantissima.
Grazie alla mia persona ora l’Italia ha la grande chance di affacciarsi sul mercato cinematografico cinese, che ormai è diventato il secondo più grande dopo Hollywood e che in un breve futuro probabilmente riuscirà anche a superare. La Cina ama l’azione, il pubblico cinese ama le emozioni forti. E per una collaborazione di successo tra i due Paesi solo una co-produzione su un film a base di questi elementi può essere la chiave di svolta. Io sono stato il primo italiano ad aver portato in Italia questo Ottobre un produttore serio e pronto a lavorare con il mio Paese. Questa è una chance che l’Italia non può e non deve perdere. Una volta che questo film vedrà la luce, ci sarà nuovamente fiducia nel cinema di genere e l’Italia di sicuro si metterà in moto per riportarlo in auge in modo autonomo.
Hai recitato in diversi lungometraggi: quali consideri le tappe fondamentali del tuo percorso da attore e martial arts director?
Qui mi riaggancio all’accenno che facevo prima al ruolo del sordomuto. Il film di cui parlavo, che è stato poi il mio primo vero successo in Cina, si intitolava Chen Muo De Fu Chou. Lo girai nel 2010. Quel film è stato la colonna portante di tutta la mia carriera perché il ruolo che era stato cucito su misura per me, oltre ad essere, come ho spiegato, assolutamente una sfida a livello recitativo, venne studiato alla perfezione per far sì che il pubbico cinese potesse accettare la mia figura di eroe bianco all’interno della loro cinematografia marziale. Lo stratagemma del personaggio muto venne creato proprio perché eliminando l’uso del parlato venne eliminato radicalmente l’elemento che più poteva portare il pubblico cinese a guardare a me come ad un attore “occidentale”. In quel film non parlavo, mi spiegavo a gesti usando il vero linguaggio dei segni cinese, per il quale mi allenai duramente con una maestra di Shanghai per oltre due mesi onde rendere il tutto assolutamente realistico (quando parlavo di impegno a livello attoriale). E oltre a ciò il mio unico modo di comunicazione era la mia abilità nel Kung Fu cinese. Così il pubblico poteva finalmente dimenticarsi delle mie origini e percepirmi come uno di loro. Il mio volto era occidentale sì, ma dentro, nel cuore, il mio personaggio era al 100% cinese. Ancora oggi devo ringraziare i produttori di quel film per il coraggio prima di tutto e poi per l’intelligenza che ebbero nella costruzione di quel personaggio.
Oltre a questo, ovviamente di grande importanza sono stati quei ruoli in cui è nata poi la mia figura di cowboy moderno, personaggio rispolverato dai vecchi spaghetti western italiani e i film di Sergio Leone di cui in Cina sono grandissimi estimatori. Quindi vista le mia origine, la mia figura da cowboy solitario venne quasi da sé e poi è un immagine che ho finito per portarmi dietro per tutti questi anni. Per quanto riguarda il mestiere di action director e coreografo la tappa fondamentale risali davvero ai primissimi mesi dopo il mio arrivo in Cina. Si trattò di un corto del 2009 che poi venne intitolato Kang De Chuan Qi. Era la prima volta che dei produttori e un regista cinese scommettevano su di me. Mi chiamarono nel loro ufficio dopo aver ricevuto via email i corti che avevo girato in Italia con l’aiuto di mio padre e mi offrirono una chance. Mi avrebbero procurato tutto il budget necessario per un totale di sette giorni di riprese (che poi divennero otto) in una location di mia scelta a Shanghai e mi avrebbero messo a disposizione un team di stuntman professionisti che vennero presi in prestito per l’occasione dal team di varie star cinesi e che lavoravano in produzioni enormi come New Police Story di Jackie o Red Cliff di John Woo. Mi dissero che avevo questi sette giorni di tempo per sbizzarrirmi nella creazione e nella ripresa di una scena d’azione che potesse shockarli in qualche modo. Alla fine riuscì a creare una scena di combattimento lunghissima di 15 minuti, riuscendo ad incorporare nella scena tutti gli stili di arti marziali in cui ero preparato. E girai il tutto nonostante la rottura del legamento crociato anteriore del ginocchio destro che mi ero portato dietro dalla mia partenza dall’Italia. Gli stuntman rimasero così impressionati dalla mia perseveranza e dal vedermi lavorare nonostante quella grave invalidazione che alla fine coniarono per me quello che sarebbe poi diventato il mio nome d’arte in Cina, Kang.
Il corto ebbe un grande successo nel circuito di Festival a Shanghai e sbarcò persino in America dove vinse il premio per la migliore scena d’azione a base di arti marziali all’Action on Film Festival di Los Angeles che uno dei Festival più prestigiosi per quanto riguarda il cinema d’azione. Puoi immaginare come rimasero i produttori cinesi. Da allora non ebbero più dubbi sul mio talento registico e di coreografo dei combattimenti. E da lì in parallelo al mio lavoro di attore ho portato avanti anche questo mestiere lavorando, quando non come attore, come action director e coronando così anche il mio sogno di creare e dirigere le scene d’azione, non solo interpretarle.
Da amante del cinema orientale: chi sono i tuoi registi preferiti cinesi e hongkonghesi, non solo di cinema di arti marziali?
Posso dirti subito che la lista è davvero lunga. A livello di Cina ed Hong Kong ci sono molti nomi che secondo me sono delle vere e proprie autorità registiche, da Hou Hsiao Hsien a nomi come Wong Kar Wai. La cosa che più mi ha da sempre colpito è prima di tutto la loro particolare attenzione all’estetica, alla cura della fotografia, allo stile con cui uniscono le varie inquadrature. Penso sia uno dei punti che rendono il cinema di tali registi qualcosa di unico per noi appassionati. Wong Kar Wai è stato anche uno dei pochi che è riuscito a portare la propria eleganza visiva anche in un film di arti marziali come The Grandmaster. Un grande regista che stimo moltissimo, anche se magari la risposta può sembrare scontata è Ang Lee. Lasciando da parte La tigre e il dragone che è un film che non amo neanche molto particolarmente, credo che la sua grandezza stia nel fatto di essersi saputo esportare perfettamente all’estero senza perdere il suo stile personale.
Due altri grandissimi registi che stimo molto sono Derek Yee e Johnnie To. Derek credo possa essere fiero di aver girato Shinjuku incident con Jackie Chan, riuscendo per la prima volta a renderlo credibile in un ruolo assolutamente non d’azione ma al contrario tutto montato sul dramma. Johnnie To poi credo sia l’odierno maestro indiscusso per quanto riguarda i crime film, o i moderni heroic bloodshed raccogliendo il testimone lasciatogli in eredità da John Woo che purtroppo si è allontanato dal genere. Altro grande regista che immagino sia quasi sconosciuto al di fuori della Cina è Dun Xin Jie, un regista grande appassionato e profondo conoscitore della storia cinese degli anni ’20 e ’30 e che in numerose pellicole ha esplorato in maniera incredibilmente personale lo stile di vita e la mentalità del popolo cinese durante quegli anni. È uno dei registi che credo meriterebbe assolutamente l’esportazione delle proprie opere ma che per il momento resta un simbolo solo in terra orientale. E la lista potrebbe andare avanti ancora a lungo.
Qui la versione in inglese dell’intervista.