L’occhio che uccide
La genesi di Peeping Tom, L’occhio che uccide: una pellicola imprescindibile per qualsiasi discorso sul cinema necrofilo e autofagico
“Peeping tom”, letteralmente “guardone”; oppure “voyeur”, come titola la versione francese del film. L’anno è il ’60, lo stesso di Psycho, il progetto iniziale quello di girare un film sulla vita di Freud ma Huston annuncia il suo Freud, passioni segrete quando Michael Powell e lo sceneggiatore Leo Marks hanno appena cominciato a lavorarvi e li costringe a fermarsi. I due si mettono all’opera su un’altra idea di Marks: il racconto di un assassino che filma le vittime nell’atto di ucciderle. Il budget è ridotto e Powell si affida a una compagine di tecnici veloce e affiatata, in grado di “parlare tutti la stessa lingua”: il viennese Otto Heller alla fotografia, l’operatore Gerry Turpin, il montatore Noreen Ackland. Powell si ritaglia un cammeo nella parte del padre di Mark, ma non è difficile riconoscere dietro le fattezze del giovane protagonista quelle di un regista che amava definirsi “assoluto” perché non smetteva di esserlo neppure per un istante e quando girava per strada pensava a quello che vedeva in termini di montaggio.
Così, quando Mark mostra a Helen un filmino casalingo girato dal padre, dimostra di concepire lo svolgimento della propria vita in termini di sequenze che si succedono le une alle altre. Non diversamente dalla madre di lei, cieca, l’unica a percepire da subito la natura ambigua del vicino di casa: la sua menomazione ha trasformato l’udito nel senso privilegiato e il passare del tempo viene scandito dai rumori della quotidianità. Ma se nel caso della donna si tratta di necessità, quella di Mark è più una malattia. La sua vita viene costantemente filtrata, mediata dalle immagini, le emozioni scaturiscono al momento della visione postuma e non nell’istante concreto dell’accadimento. È in questo che sta il tragico sfasamento patito dal giovane: l’idea di poter fermare il tempo, “mummificarlo”, nella speranza che l’essenza delle cose e delle persone possa essere preservata. Ma è solo un’illusione: tutto svanisce irrimediabilmente e lui ne è consapevole: “tutto quello che filmo, lo perdo”, afferma, rifiutandosi di riprendere la sua nuova amica.
Quello che Powell considerava un film tenero e romantico viene recepito in tutt’altro modo dalla stampa, che gli si scaglia contro con un’acredine inaudita. Derek Hill sulle pagine del Tribune sentenzia: «L’unica maniera veramente soddisfacente di disporre di L’occhio che uccide è prenderlo con la paletta e buttarlo subito nel gabinetto più vicino, tirando l’acqua. E anche così se ne continuerebbe a sentire la puzza». Non da meno i recensori delle altre testate. Come lo stesso Powell ebbe a dire, non si trattava di stroncature ma di “violenti attacchi personali”. Ed è proprio l’ostilità di questi attacchi a spaventare la Anglo-Amalgamated che ritira il film dalle sale e fa di tutto per liberarsi del negativo. Il film non incontra sorte migliore negli Usa, dove esce con due anni di ritardo, tagliato di oltre venti minuti. La rivalutazione comincia alla metà dei ’70, con una nuova edizione per le sale francesi, seguita da quella americana, voluta da Scorsese, grande ammiratore del film e del suo regista.