La casa dalle finestre che ridono
Nel Paese dei mostri
Quando uscì nel 2002 o 2003 il dvd Fox di La casa dalle finestre che ridono, per il lancio venne organizzato un bel meeting a Milano, una tavola rotonda alla quale partecipammo insieme a Pupi e Antonio Avati, Lino Capolicchio e Gianni Cavina – tremendo, che più volte mise in difficoltà, sfottendo e ridicolizzando il sottoscritto che moderava quell’incontro. Comunque, una recensione nocturniana del film, viscerale, carnea ma finora latitante, dovrebbe cominciare facendo riferimento al “cinema dei mostri”. Perché è imprescindibile, il mostro, da quel che ha fatto Avati nelle sue operazioni migliori e il suo cinema è stato cinema di mostri. Il “mostro” è il genere, non la commedia, né il grottesco, né l’horror o il gotico o la farsa. Il primo al quale ho sentito esprimere questa verità macroscopica, fu proprio Cavina, che Gomarasca intervistò lungamente in occasione della summenzionata convention della Fox, un’intervista mai pubblicata ma che dovrebbe e meriterebbe di esserlo, perché il personaggio andava a ruota non libera ma liberissima. Cavina usò il termine “mostro”, in rapporto a Pietro Bona, che non è nella Casa dalle finestre che ridono, ma in altri film di Pupi, Le strelle del fosso e Tutti defunti tranne i morti. «Pietro Bona – diceva – era un po’ negato alla vita, ma Pupi lo aveva preso, come tanti altri mostri che ha usato nella sua filmografia. I mostri erano il sale di questo cinema». I mostri. “I mostri sono – mi cito da una recensione della Mazurka del barone della santa e del fico fiorone – le grottesche maschere che popolano l’Emilia della memoria e dell’idea. I mostri sono l’iperbole, sono le divinità ctonie, terrigene, telluriche di un mondo che solo Avati aveva probabilmente la capacità e il cinismo per portare in scena”. Ve lo ricordate Bob Tonelli, nella Casa dalle finestre che ridono? Fa Solmi, quello che va ad accogliere Stefano appena sbarcato dal traghetto e gli fa quel bellissimo discorso in cui gli dice che: «A costo di inventarlo, bisogna che lo troviamo un paesano celebre che faccia chiamata. Lei lo sa cosa sta succedendo a Guastalla con il Ligabue…». Bob Tonelli che a dirgli “nano” si offendeva e si adontava perché – come ci ha spiegato Antonio Avati – rivendicava orgogliosamente la propria condizione di poliomielitico: «Io non sono nano, sono poliomielitico!».
Tonelli era stata una pietra angolare nella storia del cinema degli Avati perché, ridendo e scherzando, fu per il suo tramite che si era resa economicamente possibile la produzione di Balsamus. La storia di quella nascita, del come e dove La casa dalle finestre che ridono passò dalla potenza all’essere, Pupi l’ha raccontata decine di volte. Recita così: «Uscì Bordella, che il primo giorno fece degli incassi da sballo, poi, il giorno successivo ce lo trovammo sequestrato per oscenità e noi tutti fummo condannati al tribunale di Latina, dove ci eravamo recati con questo avvocato che ci aveva portati lì con il bagagliaio pieno di bottiglie di champagne per festeggiare la vittoria. E le bottiglie, dopo la sentenza, le avremmo invece volute tirare in testa a lui. Però, quella fu anche la ragione e l’occasione per cui, durante il ritorno, in macchina, a me venne l’idea di tirare fuori da un cassettino questo vecchio soggetto che avevo scritto e che era La casa dalle finestre che ridono. Per non morire di dolore dissi: “Cerchiamo di fare questo piccolissimo film”, a un costo praticamente zero e in pochissime persone. Da un male venne un bene, è proprio così. Il sequestro di Bordella servì a farci costituire una società di produzione e a realizzare questo film, che nella mia filmografia viene spesso ricordato. La casa (Avati non lo cita mai per intero il titolo, ma come La casa oppure come Casa finestre, ndr), malgrado fosse il film scommessa fatto con due lire, ci diede delle soddisfazioni enormi e continua a darcele, oggi. La cosa incredibile è che è un film che continua a sopravvivere. Dovunque io vada nel mondo, mi citano questo piccolissimo film, che io non considero nemmeno tra le cose mie migliori».
C’è una concrezione di notizie strane legate a questa nascita, una gran circolazione di misteri, come in tutte le cose importanti che non si generano mai in modo lineare. Il soggettino estratto dal cassettino che, dice Avati, diventò La casa, all’origine era diverso e non si intitolava nemmeno così: «Quando lo scrissi, forse sei o sette anni prima, si chiamava Blood Relation ed era stato pensato per Lino Capolicchio e Mariangela Melato». Primo mistero da sondare: che cosa sia la sceneggiatura catalogata nel fondo Creec della Cineteca di Bologna con il titolo La luce all’ultimo piano, attribuita a Pupi Avati, Antonio Troisio e Alfredo Cuomo che nel summenzionato catalogo viene fatta equivalere a La casa dalle finestre che ridono. Ovvero, scostandosi dal burocratese, sarebbe un draft o una stesura intermedia della Casa? E questo lo hanno ampiamente sondato e acclarato per noi Alessio Di Rocco e Fabio Pucci, provvedendo a un puntuale confronto tra l’una cosa e l’altra. Anche il racconto di Lino Capolicchio, che parte da lontano sulla Casa, instilla diversi dubbi: «L’incontro tra me e Pupi Avati avvenne, in realtà, molto tempo prima che io facessi con lui La casa dalle finestre che ridono. Perché mi faceva la corte da molti anni e mi aveva addirittura mandato il trattamento per un film che non si è mai fatto, che si intitolava Fuori dal bosco di Erpin, da lui scritto per me e Alec Guinness. Mi aveva portato anche a vedere i film che aveva fatto fino a quel momento… Insomma, mi corteggiava moltissimo. Io in quel momento ero un divo (non modesto ma giusto, ndr) e potevo veramente decidere la sorte di un regista o no. Pupi, il trattamento della Casa me lo mandò molto tempo prima che lo facessimo. Ricordo che nella prima versione, lui lo aveva scritto a forma di diario. C’era un diario che veniva trovato e si sentiva la voce off, di lui, che raccontava quanto era scritto nel diario e il protagonista, nel finale, moriva, esplicitamente, non era ambiguo come nella sceneggiatura che abbiamo poi girato. All’inizio, Pupi non riusciva a montare il film. In quel momento Il giardino dei Finzi Contini stava spopolando negli Stati Uniti e così intervenne un produttore canadese che rilevò il film di Pupi e voleva produrlo, sul mio nome come protagonista. Soltanto che intendeva cambiare tutto, voleva far diventare il mio personaggio un detective. E io lì mi opposi.
Dissi che a quelle condizioni il film non lo avrei fatto. Il bello del film, la sua caratteristica, era quella di svolgersi nella bassa emiliana, con questo protagonista che fa un mestiere curioso come il restauratore. Se tutto fosse scaduto nella convenzione, avrebbe perso la sua originalità. Ricordo che arrivò il mio agente, addirittura mentre ero in camera da letto, per farmi firmare il contratto con questo produttore canadese: “Devi firmare – mi diceva –, questo è il momento buono, te stanno a offri’ un pacco de sordi…!”; “No guarda – gli risposi – rimetti via quel contratto, non mi interessa, a queste condizioni io il film non lo faccio”. Mi offrivano, all’epoca, 120 milioni, che nel 1976 erano una grossissima cifra. Pupi sperava che io non accettassi, pregava in cuor suo che io dicessi no. Poi non ne abbiamo mai parlato, ma secondo me questa è la verità. Perché era un misfatto stravolgere l’originalità di questo film. Diventava quasi delittuoso. Se hai una cosa così originale, la cui bellezza sta proprio in questa originalità, e vuoi farla diventare una cosa convenzionale, di un detective che arriva nella Bassa Padana… allora il detective non sono io. Allora fai un film con un attore americano che viene in Italia e gli fai fare il detective. Cosa c’entro io?». Molto chiaro, Capolicchio.
Gianni Cavina, che aveva un forte debito di riconoscenza verso Pupi, perché se non ci fosse stato lui – diceva – sarebbe rimasto a fare il geometra per il resto della sua vita, ricordava il ruolo di Coppola, nella La casa dalle finestre che ridono, come una possibilità di sperimentare un carattere diverso: «Era uno che aveva un segreto. Uno che tutti trattano come uno scemo, ma lui li tiene, in qualche maniera, in pugno, perché sa qualcosa che può mettere la gente del paese nella merda. Ho amato molto questo film, ma, non so perché, è come se la mia mente lo avesse anche parzialmente cancellato. Le cose che mi ricordo sono due. La prima che mentre lo giravamo, ci fu il terremoto, terrificante, del Friuli. Quando abbiamo visto i palazzi che tremavano e la strada che cominciava a ondulare, è stato spaventoso. Pupi si è messo a gridare a tutti di andare sotto il campanile e io ho guardato Pizzirani che era di fianco a me e gli ho detto: “Ma come, sotto il campanile? Pupi è scemo?”. In quel frangente, Amedeo Tommasi, il musicista, è montato in macchina ed è scappato per la paura, ma poi ha sbagliato strada ed è andato dritto verso Gorizia dove c’era l’epicentro del terremoto… (ride). L’altra cosa che mi ricordo bene è che alla fine avevo suggerito a Pupi che lui, Capolicchio, doveva morire. Invece, si è messa di traverso la distribuzione che ha spinto per quel finale che si vede nel film, ambiguo, dove non si capisce se lui vivrà o no, ma forse sì…». Esistono diverse scuole di pensiero a tal proposito, anche se molti preferiscono credere che Stefano muoia. Capolicchio, il diretto interessato, dice che «Stefano muore, è ovvio. Ha una ferita tale che non può salvarsi… La mano che appare contro il tronco, alla fine, può essere anche di qualcuno che cerca di soccorrerlo, ma secondo me non arriva in tempo. Lui è difficile che con una ferita del genere, dopo avere perso molto sangue, possa farcela… C’è un dettaglio del sangue che sta colando. Tu, in fondo, ti affezioni al personaggio e quindi vorresti che sopravvivesse, è normale. Ma in realtà non puoi sopravvivere dopo le coltellate che lui ha ricevuto. Inferte con questi coltellacci che sembrano presi da una favola dei fratelli Grimm, assolutamente spaventosi, terribili. E c’è, nel film, la ricerca di quella dimensione della favola che ci terrorizzava da piccoli.
D’altronde, si tratta di un film gotico atipico – proseguiva Lino, spostando ora il discorso sulla natura profonda e pregnante della La casa dalle finestre che ridono. La genialità di Pupi consiste nell’inserire un racconto gotico all’interno di una dimensione non soltanto solare ma bonaria, bonacciona. Questa Bassa dove c’è il tortellino pronto, il salame pronto, ma in agguato, lì accanto, c’è anche qualcos’altro pronto ad ucciderti. Ed è geniale, perché Pupi riesce a fondere queste due cose e a compenetrarle. Riesce a unire due elementi che, in realtà, sono agli opposti». La lettura che in genere viene fatta di Pupi Avati è di un uomo tranquillo, pacioso, conviviale, però Lino avvertiva: «Attenzione: Pupi è un personaggio che va decifrato, perché questa sua bonarietà così bolognese, nasconde, in realtà, delle insidie. Cioè, la sua parte più strana e più affascinante anche, è quest’altra parte, quella che non si vede. Il lato oscuro, che è poi il lato della Casa dalle finestre che ridono. Racconto un episodio che mi è successo personalmente: io sono appassionato di Alfred Kubin, un pittore, illustratore e disegnatore che realizzava opere molto spaventose, delle specie di trascrizioni grafiche e pittoriche dei suoi incubi. Era un boemo, di origini, e aveva alle spalle tutta quella cultura esoterica e magica che è propria di quei posti. Stavo cercando un libro edito dal Saggiatore che si intitolava Demoni e visioni notturne: lo cercavo a Roma, lo cercavo a Milano, dovunque, e non riuscivo a trovarlo. Era un libro di Kubin che lo aveva scritto a mo’ di diario. Niente, non si riusciva a trovare.
Improvvisamente, un giorno ne parlo con Pupi Avati e gli racconto di questo affascinante percorso, esoterico in qualche modo, collegato a Kubin. Bene: il giorno dopo lui mi telefona e mi dice se posso andare un attimo a casa sua. Mi mostra il libro e mi dice: “Era questo quello che cercavi?”. Ce l’aveva nella sua biblioteca! Trovai straordinaria questa cosa anche perché mi disse Pupi che quella notte si era svegliato ricordando improvvisamente di avere quel libro nella sua collezione». Avati, quando ha fatto La casa dalle finestre che ridono, non era un professionista della paura. Racconta, anzi, che lo scopo di girare il film fu quello di studiarli, conoscerli, metterli bene a punto, i meccanismi che generano la paura. Aveva come unica guida se stesso, i terrori e i tremori che si portava dietro da bambino e che sorgevano dal fondo rurale, contadino della sua esistenza infantile. A parte la storia del prete donna, lo spauracchio che gli agitava una zia quando era piccolo per farlo stare buono, lì, dentro la sua Casa, c’è un sacco di roba attinta dal mondo agreste e trasformata o sussunta in chiave, diciamo così, perturbante. A ognuno, del film, resta addosso qualcosa di diverso e di specifico, ma come si fa a non provare un ribrezzo totale pensando alla scena in cui Coppola dice di avere rinchiuso il topo nella bara? L’effetto allucinante deve la propria forza solo alla parola, a un concetto, a un’idea, perché non si vede nulla. Questo mi fa venire in mente Salò di Pasolini, che non è un caso abbia conosciuto la partecipazione di Pupi in fase di sceneggiatura anche se poi lui ha ridimensionato e allontanato da sé la responsabilità del risultato finale. Ma tra un film e l’altro, c’è più di un analogia.
Tanto per cominciare, lo spartiacque, il discrimine tra il raccapricciante e l’ilare è molto labile, ed è volutamente tenuto tale. Pupi su questo, quantomeno nella La casa dalle finestre che ridono, è un maestro, credo grazie anche all’esperienza che gli derivava dall’avere intrapreso il suo viaggio nel Paese dei Mostri ben prima di questo film. Dai mostri siamo partiti e ai mostri è giocoforza arrivare, perché nella dimensione del mostruoso coabitano l’orrore e il grottesco, quindi ciò che fa urlare e ciò che fa ridere, che sono i volti contrapposti apparentemente ma gemelli del cinema di Pupi. L’uno non sta in piedi senza l’altro, si puntellano e si rafforzano a vicenda. Quando Pina Borione, la sorella apparentemente paralitica, bisbiglia a Stefano di avvicinarsi, nel suo accento emiliano, c’è uno stridore sdrammatizzante e quasi comico rispetto alla visione del cadavere del fratellino, semi-marcito e messo sotto spirito, che dischiude l’anta del vecchio armadio. Ed è qui che sta la forza e la grandezza della Casa, non nei paragoni senza senso con Profondo rosso che vengono fatti anche ben più in alto dei recensori da operetta in circolazione. Tra il film di Argento e quello di Avati non c’è di mezzo il mare, ma l’oceano, perché riflettono due forme mentali, più che opposte agli antipodi. Uno è il porco scannato nella stalla, l’altro è la stilizzata tigre dai denti a sciabola. Uno è la campagna umida, scura, odorosa, l’altro è la metropoli. Uno è il ventre e l’altro il cervello. Entrambi capolavori, certamente, ma da tenere ben distinti e dando ai rispettivi registi, quel che a ciascuno spetta.