La figlia oscura e la retorica della maternità
Una riflessione sul film diretto da Maggie Gyllenhaal, trasposizione del romanzo di Elena Ferrante
La figlia oscura, uscito in Italia nell’aprile del 2022, è l’esordio alla regia per Maggie Gyllenhaal, fino ad ora vista solo nelle vesti di impeccabile attrice. L’aver scelto come opera prima la trasposizione cinematografica di un romanzo di Elena Ferrante è stata sicuramente una sfida coraggiosa. In primo luogo perché l’autrice àncora la propria scrittura e le proprie storie alle usanze e alle tradizioni del nostro paese e in particolare al tessuto culturale del sud Italia ed è abile proprio nel ricreare immagini forti e precise della società italiana. La regista invece sceglie di ambientare la storia in una piccola isoletta greca e di collocare le origini della protagonista in America. L’atmosfera, dunque, a tratti ne risente. In secondo luogo in quanto le aspettative sulla trasposizione dell’opera di una scrittrice tanto amata salgono moltissimo e a deluderle ci vuole poco. La storia racconta di una professoressa universitaria che, in seguito alla partenza delle figlie decise a raggiungere il padre in Canada, sfrutta il tempo a sua disposizione per concedersi una vacanza in solitaria in territorio greco. Lì fa presto la conoscenza di una numerosa famiglia poco raccomandabile. Scarso interesse le suscitano i vari membri del clan, eccezion fatta per una giovane madre, Nina, (interpretata da Dakota Johnson) e la sua bambina. Il forte ed evidente legame che lega madre e figlia scatena nella protagonista non solo curiosità ossessiva nei loro confronti, ma anche un amalgama di ricordi legati al suo passato e fa riemergere la sensazione di oppressione vissuta anni prima con le figlie piccole. La storia, sia sulla carta che sullo schermo, affronta un tema molto complesso, quello della maternità. Leda, la protagonista del racconto (nel film la bravissima Olivia Colman), vive infatti un profondo conflitto nei confronti del suo ruolo di madre. Apprendiamo nel corso della narrazione che da giovane, in preda al soffocante senso di responsabilità a cui la sua condizione di giovane madre di due figlie la costringeva, decise di abbandonare il nucleo familiare per tre anni, senza guardarsi mai indietro fino al giorno del suo ritorno. Guarda dunque con interesse e a tratti con invidia il rapporto che Nina ha con la figlia: una sintonia evidente che lascia fuori chiunque le osservi. Presto capirà però quanto anche la stessa Nina si senta inadatta e vulnerabile nel ruolo di madre e che non sempre l’apparenza di una situazione o ancor più la legge sociale a cui siamo sottoposte si traduca necessariamente in una situazione facile e naturale.
Nella società occidentale la maternità viene tutt’oggi fatta coincidere con il destino di ogni donna, la quale sembra essere considerata meno utile a questo mondo se ad un certo punto della propria vita sceglie di non procreare: per necessità, impossibilità, o semplicemente per disinteresse verso quest’evento. Ferrante invece scrive di come la maternità non sia necessariamente un istinto naturale e lo stesso concetto lo rappresenta molto efficacemente anche Gyllenhaal con i frequenti flashback che riportano la protagonista indietro nella propria storia. Leda, durante il suo soggiorno in Grecia, fa nuovamente esperienza di questo senso di libertà piuttosto che di nostalgia nel sapere le proprie figlie lontane, tornando indietro con l’emotività ai giorni dell’abbandono. Si condanna per questi sentimenti e non è l’unica a farlo. Leggendo vari blog e diverse testimonianze sul web emerge in modo evidente come molte donne si sentano in colpa di fronte ai propri bisogni se questi non implicano la propria prole: il sottotesto sembra suggerire che dal momento in cui si mette al mondo un figlio o una figlia, il proprio io debba silenziarsi in favore delle volontà dell’ultimo. Uno degli elementi su cui si insiste maggiormente nella narrazione è la bambola con cui la piccola gioca in spiaggia e che a un certo punto della storia sparisce. Scopriremo poi esser stata Leda a rubarla e a nasconderla come atto impulsivo e apparentemente privo di senso. La bambola è forse il giocattolo più regalato alle bambine. Mai ai bambini, se ci si fa caso. Cosa da femmine, d’altronde. Ebbene, dietro a questo oggetto, spesso innocuamente o sbrigativamente regalato in età infantile, si nasconde già il germe di un dovere a cui, prima o poi, ogni donna sembra sia costretta ad adempiere.
Nel racconto Ferrante insiste molto sul giocattolo, al punto che potrebbe quasi essere considerato un personaggio a sé. L’oggetto lega le due storie di maternità: l’adulta lo ruba alla bambina per fare da una parte nuovamente esperienza dell’infanzia e dall’altra forse proprio per privarla del peso di un destino che in quanto femmina sembrano aver già scritto per lei. Il giocattolo nel film viene ripreso attraverso inquadrature inquietanti che ne aumentano il carico simbolico negativo e nel libro viene descritto meticolosamente, sottolineandone la fattura tanto precisa da risultare davvero realistica, un feticcio di neonato. Insomma, le due autrici hanno lavorato con precisione per restituire al pubblico una visione sdoganata della maternità in tutte le sue sfumature, non perdendo occasione di evidenziarne le ombre e sfatando il mito della gravidanza come miracolo della natura e della procreazione come unico vero evento straordinario all’interno della vita di una donna. Inoltre, questa retorica della maternità tende anche a minimizzare il carico psicologico e fisico a cui una donna viene inevitabilmente sottoposta quando affronta la nascita di un bambino. La donna, quando e se diventa madre, viene automaticamente a contatto con una serie di limiti che la realtà sociale in cui è immersa, la stessa che edulcorava la maternità come un dono da osannare, le mette di fronte: disponibilità di tempo ridotta e quindi spesso difficoltà nel gestire una posizione lavorativa e una famiglia contemporaneamente, risorse economiche e sostegni non sempre adeguati a sostenere un nucleo familiare con più di due componenti, una pressione psicologica da parte di una società che vuole la donna una mamma perfetta, amorevole, paziente e disponibile nonostante debba destreggiarsi tra lavoro, famiglia e, quando ne ha tempo, se stessa. Vi è un’altra scena che funziona da perfetta metafora a questo elogio ipocrita nei confronti della maternità ad ogni costo: quando Leda arriva nell’appartamento affittato per le vacanze vede sul tavolo un bel cesto di frutta. Colori sgargianti, buccia lucida, composizione attenta. L’acquolina in bocca cresce e la conduce con la mano verso i frutti. Quando però solleva il primo, si rende conto che il lato nascosto degli altri è ricoperto da uno spesso strato di muffa. Quest’immagine, posta all’inizio della storia, sembra già voler avvertire il pubblico a non fidarsi dell’apparenza. Nulla è mai così perfetto, facile e buono come sembra.