La luce all’ultimo piano
La sceneggiatura alle origini della Casa dalle finestre che ridono
La luce all’ultimo piano: la sceneggiatura alle origini della Casa dalle finestre che ridono
Nonostante la consistente mole di testi dedicati al regista e l’interesse che un film come La casa dalle finestre che ridono (1976) ha da sempre suscitato negli studiosi di cinema italiano, di genere e non, sulla genesi di questa fondamentale opera ci si è sempre soffermati troppo poco. Il soggetto nasce agli inizi degli anni ’70, appena dopo la lavorazione di Thomas e gli indemoniati. Lo scrive Pupi Avati insieme al fratello Antonio e a quella storia, che mescola la favola nera al giallo, si interessa il produttore Alfredo Cuomo, al tempo titolare della
Intelefilm. Cuomo porta il soggetto in America in cerca di finanziatori e affianca al regista bolognese il fido sceneggiatore Antonio Troiso, per rendere la vicenda di maggiore appeal per il pubblico a stelle e strisce. «A quel produttore non interessava il mercato italiano», racconta oggi Pupi Avati, «puntava tutto sull’estero. Quindi al mio soggetto impose una serie di cambiamenti di cui mi sbarazzai quando, anni dopo, finanziai il film per conto mio». Le modifiche richieste al regista riguardavano le scene di violenza, che andavano esplicitate e il mutare la nazionalità del protagonista, che doveva essere necessariamente uno straniero. La sceneggiatura completata, recante il titolo Blood Relation/La luce dell’ultimo piano, non sortisce però gli effetti sperati e Alfredo Cuomo non trova investitori cui appoggiarsi al di là dell’oceano. «Non se la sentiva di rischiare in prima persona investendo su un film horror, pertanto mi propose di girare, in sostituzione a quello, una commedia erotica. Lo ringraziai per la gentile offerta e declinai l’invito».
La commedia di cui parla Avati è Crescete e moltiplicatevi che nel 1973 accetta invece di girare Giulio Petroni. La sceneggiatura di La luce dell’ultimo piano finisce quindi in un cassetto, seppellita da altri copioni. «Dopo quell’esperienza, cambiai totalmente registro. Girai La mazurca del barone, della santa e del fico fiorone, che andò piuttosto bene, e poi feci Bordella, che si rivelò un disastro, in quanto i magistrati sequestrarono la pellicola. Per risollevarmi dal fallimento economico dovevo assolutamente mettere in cantiere un altro film, allora mi ricordai di quella sceneggiatura nel cassetto, soltanto che non potevo usarla così com’era perché era stata scritta anche da Cuomo e Troisio, quindi chiamai Gianni Cavina e Maurizio Costanzo e con loro vi ho apportato alcune modifiche sufficienti a non incappare in problemi di diritti. C’è anche da dire che quella prima stesura non l’avrei mai potuta girare da solo, perché avrebbe necessitato di ingenti investimenti. L’ho quindi molto ridimensionata e, se vogliamo, italianizzata». Attraverso la società AMA Film, appositamente fondata nel 1976, i fratelli Avati danno quindi alla luce La casa dalle finestre che ridono, destinato a diventare col tempo un piccolo cult, ancora oggi ricordato per alcune scene entrate di diritto nella leggenda, come l’immagine finale del finto prete che togliendosi la tonaca scopre un seno, svelando la sua reale identità di donna. Scena che fu il frutto di una geniale trovata di Antonio Avati, aggiunta peraltro a mo’ di inserto a montaggio già concluso. Ma se la storia fosse andata diversamente, se Pupi Avati avesse girato il film per il mercato americano, come sarebbe stato La casa dalle finestre che ridono? Per rispondere a questa domanda abbiamo recuperato il copione primigenio composto da 237 pagine, 137 scene e 937 inquadrature. Di seguito ve ne proponiamo un dettagliato resoconto.
La scioccante immagine di apertura di La casa dalle finestre che ridono, che mostra l’attore Eugenio Gramignano pugnalato più e più volte mentre scorrono i titoli di testa, in questa stesura è del tutto assente. La prima scena descrive invece l’interno di un appartamento «immerso in un disordine apocalittico», tra libri, abiti, giornali e fotografie, una delle quali riproducente uno strano simbolo, sul quale era previsto l’inserimento dei cartelli di testa. L’appartamento appartiene a Steve, un giornalista americano cinico e spavaldo, notevolmente diverso, per carattere, dal personaggio del timido restauratore cui darà il volto Lino Capolicchio nella versione poi portata sullo schermo. Tony Russel, fotografo della rivista per la quale Steve lavora, lo aggiorna sulle novità inerenti il servizio su quel misterioso simbolo rinvenuto in una chiesetta del nord: secondo il parere di due diversi ricercatori, esso apparterrebbe a una setta localizzata in Amazzonia, che pratica sacrifici umani e omofagia, in nome di uno spirito demoniaco di nome Gaal. È dunque impossibile che sia stato avvistato in Italia. Dopo giorni di silenzio da parte di Tony, Steve decide di raggiungerlo nel paesino dove alloggia, immerso nella Pianura Padana. Scendendo dal treno, il Nostro nota un ragazzo con un grosso sacco, che rivedremo in seguito. Ad attenderlo, c’è invece “l’erculeo tassista Coppola”, personaggio noto a chi ha visto il film, qui ridotto a figura di contorno. Il giornalista si reca alla “Pensione Riganti” in cerca del collega, ma la proprietaria gli dice di non vederlo da quattro giorni. Va poi in commissariato, dove incontra un personaggio piuttosto importante in questa stesura: il commissario Manasse, che fungerà da deus ex machina sul finale. Manasse, intanto, vieta a Steve di entrare nella stanza di Tony, suscitando una piccola lite. Ignorando gli ordini, Steve entra di soppiatto nella stanza interdetta e rinviene nel camino dei telaini di diapositive bruciati. Nell’unico sopravvissuto alle fiamme, è ritratto il martirio di S. Sebastiano, lo stesso situato nella chiesetta del paesino, dove ritroviamo Steve nella scena appena successiva. La descrizione del dipinto (che scopriamo essere opera di Buono Legnani) risulta molto vicina a quanto poi mostrato nel film (il santo martirizzato e attorno due macchie bianche), così come il dialogo seguente col prete e il personaggio di Lidio, che nel riaccompagnare Steve alla pensione gli racconta di avere aiutato Tony a sorreggere le luci per scattare foto al dipinto, aggiungendo infine: «Quello spilungone in questo paese aveva visto solo due cose: quello schifo di quadro in chiesa e quel capolavoro di culo che ha Francesca».
In La luce dell’ultimo piano il personaggio testé citato (che Pupi Avati voleva affidare a Mariangela Melato) sintetizza due figure distinte di La casa dalle finestre che ridono: la prostituta e la maestrina. Steve incontra Francesca per domandarle di Tony e ci finisce a letto. La ragazza gli suggerisce poi di non fare troppe domande in giro, in quanto, secondo la gente del posto, il quadro nella chiesa è protetto da due streghe che di notte escono allo scoperto. Rientrato alla pensione, Steve apprende dal commissario del ritrovamento del cadavere di Tony in fondo al fiume. Poco dopo, all’obitorio, fa la sua comparsa un altro personaggio assente nel film, il dr. Bathory, che esaminando le strane lacerazioni sul torace del cadavere afferma che la colpa dev’essere senz’altro dei pesci gatto. Nella scena seguente compare Laura Hinterman, la moglie del sindaco. Anziana nerovestita con in mano un mazzo di fiori, colpisce l’attenzione di Steve, che in piena notte la segue sin dentro la chiesa. La donna poggia il mazzo accanto al dipinto, sussurrando: «Sei tu Buono… Sei venuto finalmente!». Dopo che la donna esce dalla chiesa, Steve si sofferma a osservare le sette ferite sul costato del Santo, simili a quelle rinvenute sul torace di Tony, ma viene sorpreso dal prete, il quale, dopo un attimo di imbarazzo, lo invita a bere qualcosa in canonica, dove è seduto anche il dr. Bathory. Steve, ricevuta la valigia dell’amico deceduto, decide di ripartire, ma in stazione Francesca lo ferma: «Mi sono ricordata da chi è andato Tony prima di morire». La sequenza è alternata a un momento peculiare di questa stesura: un omicidio rituale ambientato in un “grande solaio buio”. Le sagome di due vecchie in lunghi camicioni si aggirano per l’ambiente. Qui troviamo il ragazzo del sacco (notato all’inizio) saldamente legato alla parete. I pugnali penetrano violentemente le sue carni, nella medesima disposizione delle ferite del martire, e il sangue che sgorga va a riempire delle ampolle di vetro.
Steve e Francesca, in barca, si recano dalla persona che incontrò Tony: Mittias Leone, il guardiano del faro, un personaggio che vive in solitudine circondato da uccelli e che molti in paese ritengono essere uno stregone. Un tempo fu amico di Buono Legnani. «Lo hanno ammazzato», esordisce l’uomo, «Io glielo avevo detto… Lo avevo avvisato che loro potevano ucciderlo». I due seguono Mittias e si dirigono nella stanza dove – ci informa l’uomo – aveva vissuto Buono Legnani. All’interno le pareti sono completamente affrescate: “Ogni immagine è contraddistinta da una data progressiva: 1919, 1920, 1921 e così via. Immagini di un bambino che gioca, di una comunione, un picnic… Compare una ragazza, poi una divisa da soldato, poi un piroscafo (…); sono, insomma, le immagini di una vita”. Infine vediamo un quadro datato 1940 che raffigura una casa con la facciata dipinta con enormi bocche, davanti alla quale è posizionato un uomo nudo col ventre intriso di sangue. Legnani voleva dipingere la sua vita sulla parete, ma impazzì a causa delle sorelle, con le quali aveva stretto un legame incestuoso, finendo con l’evirarsi con un rasoio per poi darsi alle fiamme. Le sorelle, “creature notturne che escono nel buio in cerca di vittime per i loro osceni riti magici imparati in Brasile”, pare siano ancora in circolazione, sostiene Mittias, e aggiunge, infine, che il faro era l’unico posto in cui Legnani poteva stare da solo a causa della fobia che le due streghe nutrono per l’acqua.
Con la sequenza successiva – Steve che, su consiglio di Livio, si installa nella villa –, il testo segue grossomodo l’andamento del film, seppur con qualche differenza: la vecchia inferma che nella pellicola si scopre essere una delle sorelle del pittore, è qui un uomo, Lirico Panisperna, “un vecchio dal volto ceruleo e dalla lunga, candida chioma”. Seguono le scene del magnetofono, il dialogo notturno con il vecchio allettato, la morte presunta del Legnani, presenti in entrambe le stesure; poi, dopo una sequenza ambientata in un centro termale con protagonista Laura Hinterman, vediamo la stessa scrivere una lettera e consegnarla a Coppola, chiedendogli di recapitarla a Steve. Nel rientrare in casa, la donna si accorge di essere seguita, ma riesce a raggiungere il suo appartamento. “L’interno è buio. Accende la luce. Zoom velocissimo sul volto di Laura. Un’espressione di orrore nei suoi occhi. Un urlo strozzato in gola”. Durante una delle sue esplorazioni notturne in villa, Steve trova in una stanza un bozzetto del dipinto di S. Sebastiano e nota che a fianco del martire ci sono due figure femminili, una delle quali con al collo un medaglione raffigurante il simbolo. L’uomo si precipita in chiesa e in una scena che anticipa sorprendentemente una analoga di Profondo rosso, armato di raschiettio, gratta via le macchie biancastre dal dipinto rivelando l’immagine di due “orribili vecchie coi volti disfatti da una smorfia demoniaca”. Dopo qualche foto al dipinto, un fugace dialogo col prete e una scena d’amore con Francesca, entriamo nella parte finale della storia. Steve nota in una fotografia che una delle vecchie ha un piede equino e corre da Bathory a chiedere se conosce qualcuno in paese con questa deformità. La risposta è ovviamente negativa.
Il tentato stupro di Francesca nella scena seguente si conclude con un particolare assente nel film: la ragazza riesce ad afferrare un paio di forbici dal comodino. Dopo una breve parentesi che mostra il protagonista sulla strada verso casa, vediamo Lidio, colpito in volto, accasciarsi a terra. Intanto qualcuno sulle scale sta scendendo in silenzio: “I piedi deformi calzano in vecchie scarpe, di panno”. Francesca prova a chiamare la polizia ma non trova nessuno: la chiamata è però localizzata e il commissario Manasse, senza farsi notare dai colleghi, imbraccia la pistola e si dirige a Villa Panisperna. Steve entra in casa e trova il letto di Francesca disfatto e in un angolo il cadavere di Lidio. Sente due voci femminili: «Ci possederai come un tempo, vero fratellino?». Il Nostro entra nella stanza e la visione che gli si para davanti agli occhi lo pietrifica: il grande armadio ha ora gli sportelli aperti e al suo interno, immerso in una vasca di formalina, c’è il cadavere di un uomo nudo. Gli sono accanto due vecchie che con le mani immerse nella vasca stanno accarezzando quel corpo sfigurato. Poco distante, Francesca, anche lei nuda e trafitta da alcuni sottili pugnali, è nella stessa posizione del S. Sebastiano. Il volto di una delle due donne emerge dall’ombra: è quello di Lirico Panisperna, che trascina il piede deforme sul pavimento.
Segue una lotta furibonda tra i due e Steve, lanciando un candelabro, rompe la vasca di formalina mandando tutto a fuoco. Le vecchie, urlando come ossesse, si precipitano sul corpo del fratello cercando di strapparlo alle fiamme. Steve perde i sensi. Intanto Manasse entra nella villa e viene subito assalito dalle due indemoniate. “I coltelli delle due donne colpiscono all’impazzata. Tutta la scala si copre di sangue. Il corpo dell’uomo rotola lentamente”. Steve, ripresosi, riesce a uscire dalla villa trascinandosi fino alla macchina. Raggiunge la chiesa e viene soccorso dal prete. Il resto è noto: “Il prete si è tolto la tonaca. Sotto indossa quell’orribile camicione che avevano le due megere al castello. Sul petto, il segno maledetto della setta. Un grido straziante, i suoi occhi si fanno acquosi, lontani. Il volto orribile della vecchia contratto in una risata orribile, subito dietro di lei, sempre più a fuoco, appare anche il volto della seconda sorella. La mano del prete ha estratto da sotto la tonaca una delle affilatissime misericordie d’oro… forse il cuore di Steve ha cessato di battere”.