La magnifica bambola
Non parla, non sporca e ti offre solo piacere. Senza chiedere niente in cambio. L’amante perfetta è artificiale
Questa faccenda degli uomini che creano donne robot perfette per il loro piacere personale è qualcosa che accade quotidianamente. Le donne più “belle” che si vedono in giro non sono reali. Sono gli uomini che perpetuano il loro perverso stereotipo di donna. È la storia più vecchia del mondo. (Chuck Palahniuk, Cavie, Mondadori Strade blu, 2005, p. 258 – 259).
“Fica” è una sineddoche per indicare una donna che si vede come oggetto erotico. “Bambola” indica, in maniera meno diretta, lo stesso concetto. Questo è vero se il contenuto da indicare è animato, se invece a vivificarlo è solo il desiderio del soggetto che ci si relaziona, allora la figura retorica cade e una bambola è solo la cosa per cui la parola è stata coniata. Se si perverte il senso la “bambola” è la Marini di Bigas Luna, se si rispetta la semantica, invece, la bambola è di plastica, davvero di plastica. È considerato perverso distogliersi dal luogo sociale cui siamo assegnati: con le bambole giocano i bambini, se si è adulti, la proiezione dei nostri desideri sessuali, investe anche gli oggetti con cui entriamo in contatto: non c’è perversione nel coito ottenuto con una bambola, c’è solitudine sembra suggerire il cinema. Sarà l’influenza di Goya, quella di Buñuel, comunque la Spagna ha prodotto i maggiori film sulla solitudine umana che va a sfociare nella “perversione” di un rapporto masturbatorio e autoreferenziale com’è quello che si ha con un corpo di plastica. C’è una distanza siderale tra un certo tipo di uomo e la donna? Si può credere alle previsioni sciamaniche del Ferreri di Ciao maschio, di L’ultima donna? Forse. È certo che i film più seri sul tema abbiano mostrato le loro tesi attraverso la lente del grottesco. Il film seminale è di certo Life size – Grandezza naturale di Luis Garcia Berlanga. Il regista spagnolo, autore del magnifico La ballata del boia, racconta la storia di un dentista parigino che sostituisce la moglie – da cui poi divorzia – con una bambola. Michel Piccoli, cinque anni dopo il Dillinger è morto ferreriano, è di nuovo alle prese con un affermato professionista, lucidissimo di mente che anarchicamente fa solo quello che vuole, è incurante della socialità organizzata, scevro da ogni preoccupazione che si vorrebbe morale.
Il protagonista di Il chiodo nel cervello (Pedro Olea, 1974) è un ingegnere navale, quello di Life – size un affermato dentista, due esempi di borghesia. Per il film di Olea e Berlanga non si tratta di amor fou (il pompino simulato alla statua in L’age d’or di Buñuel andava ben oltre), piuttosto di critica sociale: la volontà di voler dividere la propria vita, dapprima sessuale, con una bambola è vista come perversa, i due registi spagnoli criticano dunque la borghesia mediante i loro ingegneri, i loro dentisti scoppiati, lo sguardo degli autori non è neutro né indulgente verso i protagonisti, anzi, e l’umor negro di cui sono intrise le due pellicole non fa altro che rendere più amaro il tutto. È la Spagna di Franco quella in cui nascono questi film e il cinema denuncia la classe più collusa col potere. Se in Il chiodo nel cervello si dà un motivo (la morte della moglie) per accettare la presenza della bambola, in Berlanga, invece, la comparsa della bambolona giapponese è del tutto “ingiustificata”, è semplicemente l’ingranaggio che innesca il meccanismo di separazione tra moglie e marito. L’inconciliabilità dei sessi è data come assodata, nonostante questo, o meglio proprio per questo, l’uomo è incapace di ricercare la felicità da solo. La famiglia canonica è uno dei perni su cui si basa il potere costituito: va distrutta, cancellata.
La soluzione della bambola ha assunto al cinema diversi significati: quello nazionalpopolare e tremendamente maschilista del Sordi di Io e Caterina, dove l’automa femminile è una donna che non rompe le palle e scopa, quello sostanzialmente orrorifico di La bambola di cera di Francis, e di altri esperimenti analoghi. Nel film Hammer il fantoccio lasciato nei pressi dei cadaveri, afferma passando per eros, il binomio morte + pupazzo, facendo il paio con un’altra celebre bambola, però organica, quella di Psycho di Hitchcock col quale il film di Francio condivide lo stesso autore letterario, Robert Bloch. Infine quello amaro e drammatico di Berlanga e Oleo oppure del Ferreri di Marcia nuziale, scritto, comunque, insieme all’iberico Rafel Azcona, coautore anche di Life – size. In Marcia nuziale (It./Fr. 1966) Marco Ferreri – attraverso il filtro di Bataille – porta a un primo compimento il suo pensiero sul rapporto tra i sessi. Quattro episodi, quattro scherzi sull’istituto del matrimonio, la censura italiana impose 8 minuti di tagli, ma l’episodio incriminato, quello che ci interessa, è ancora chiarissimo. La famiglia felice girato nell’isola di Giannutri, con un Tognazzi sovrapponibile fisicamente al regista (il pizzetto alla Guevera), è forse il film più chiaro sul rapporto erotico tra uomo e bambola. Nel terzo millennio saremo felici!!! è la scritta che campeggia sullo schermo prima dell’inizio dell’episodio. Lo svolgersi della storia in un futuro, ormai passato per noi (le bambole hanno come anno di creazione il 1999), non soddisfa l’auspicio iniziale.
Anche qui, come in La vita sessuale dei belgi di Jan Bucquoy, la famiglia – nello specifico la figura della madre – è l’origine di ogni male: uno dei personaggi dichiara di essersi sposato, con una bambola modello z, dopo la morte della madre e la moglie/bambola di Tognazzi/Ferreri si chiama Mia. Proprio la possessione, non solo in senso fisico, è il segno in cui iscrivere il rapporto. Nella scena iniziale, in acqua, Tognazzi soffoca la bambola con cattiveria, ne morde la plastica, la poggia su uno scoglio e dice: «vado a vedere se c’è qualche ragazzina per divertirmi un po’»; «va bene caro» si risponde con voce contraffatta. Tutto qui: l’erotismo è nel voler fare ciò che abbiettamente si vorrebbe ci lasciassero fare, nel sentirsi stupidamente liberi di essere bestialmente superiori alla donna. La bambola non è un surrogato, rappresenta piuttosto la voglia di cancellare il concetto della riproduzione, l’uomo sparirà per incapacità a comprendere. Del resto, secondo Ferreri “il futuro è donna”. Le pellicole più recenti sul tema sono svincolate dall’aspirazione di voler distruggere la borghesia, che forse non c’è più, mediante il ritratto di professionisti illustrati come perversi: il mondo cambia e il cinema pure. Quello che gli altri suggerivano è scritto in chiare lettere da Robert Parigi nel suo Love – object: Kenneth è solo, disadattato, acquista on-line la bambola Nikki. “I due sono fatti l’uno per l’altra” ma a rovinare il fragile equilibri arriva Lisa, una donna vera, che s’innamora di Kenneth. Parigi riscrive Life size invertendo la comparsa delle “due” donne nella vita del protagonista: cambia tutto. Non c’è più la paura di un regime tangibile: l’emarginazione è il vero problema, il rapporto tra Nikki e Kenneth è erotico nel senso reale del termine, è inizialmente piacevole, è il paradiso se non fosse per Lisa che lede l’esclusività di un’unione atipica.
La bambola porta al sangue come testimoniano i finali dei film citati, come di orrore e di perversioni vere (che ledono la libertà dell’altro) è intriso Bambole e sangue di Paul Bartel, quello di Scene di lotta di classe a Beverly hills. In questa versione nera di Alice nel paese delle meraviglie la giovane Cheryl è spettatrice di un mondo fatto di violenze e repressione sessuale che porta chiaramente al raccapriccio visivo. La Zia Martha, padrona dell’albergo/mondo è ovviamente la regina di cuori, che nega l’amore della nipote al fotografo George costretto (?) a tremende scene di sesso con bambole messe a disposizione dalla stessa Martha. Il film è un thriller che sfocia nel gore e Bartel dosa bene raccapriccio e distensione. Una bambola risolve il problema in altri casi. È l’aspirazione dei grandi seduttori, dal Don Giovanni di Carmelo Bene al Casanova felliniano nella cui ultima sequenza s’iscrive tutta la psicologia del personaggio. Fellini mostra il seduttore veneziano avvicinarsi a un automa, con garbo e pudore, illustra il corteggiamento, il baciamano, mostra uomo e bambola in un ballo romantico e funereo allo stesso tempo: la mutazione è compiuta dunque, la felicità dell’uomo è raggiunta. Nella morte del genere umano non c’è nulla di male.