La nigredo del Climax
Tre chiavi di lettura dell'opera in acido di Gaspar Noé
La lettura profonda di un film è compito ermeneutico alto e doveroso o si rivela azione contraria all’inesauribilità dell’opera? Lasciando da parte tale questione, legata al senso e al modo della fruizione dell’oggetto artistico, è possibile evidenziare tre letture che possono essere applicate al notevole Climax di Gaspar Noé. La prima principia da una prospettiva estetica, ed è incardinata sul rapporto tra la forma e la vita. E sembrerebbe qui efficace svolgere in parallelo la lettura della conferenza di Georg Simmel “Il conflitto della cultura moderna” e la visione del film di Noé. Nella prima parte del film, viene messa in opera una forma artistica che traduce perfettamente la forza vitale. Segnata dal ritmo ossessivo della musica elettronica, la danza si presenta secondo coreografie eleganti, rigorose e studiate ‒ che riescono simmetriche anche quando ammettono e annettono la dissonanza. I movimenti degli attori/ballerini dispiegano, nella precisione delle volute, un’ispirazione dirompente e vitalistica: la carica erotica irrompe in un immaginario seducente e dionisiaco, ma ancora sorvegliato e trattenuto dalle regole e dai finimenti di Apollo. Quando la sangria inizia a inoculare nelle vene dei protagonisti il pharmakon risolutore, ecco che la forma incomincia a vacillare sotto i colpi di un dionisiaco ormai drogato e stravolto, fatalmente potenziato. Eros esplode, e la forma contiene a fatica la sua irrefragabile diffusione.
Significativa si rivela la scena che rappresenta il transito verso la seconda parte del film: le riprese in plongée mostrano, con compiaciuta e sapiente efficacia, il progressivo stravolgimento della forma artistica, la violazione della costruzione armonica e dell’incedere ritmico, lo straripare del principio vitale che causa una irrimediabile corruzione della struttura formale. È il transito verso la disintegrazione della forma. È l’avvento di una rapinosa, corrosiva e devastante, culminante ma abissale nigredo. A causa delle relazioni che, frequentemente, si intessono tra estetica e politica, la seconda lettura non può che situarsi nel dominio del politico. Il film di Noé può essere guardato alla stregua di una riflessione su ciò che accade quando, nel corpo sociale, si immettono eccitazione, ebbrezza, febbre. Se l’effervescenza diffusa è soltanto un fremito che feconda la forma politica, quest’ultima si riconfigura senza sfigurarsi, muta ma non vacilla. Quando, invece, il fermento cresce fino a esondare, quando la vibrazione si intensifica nel sisma, sono allora le ali nere del caos a prevalere e a soverchiare l’ordine costituito.
Come accade nella ‘società’ di Climax. Dapprima, ogni individuo si ritaglia la propria funzione, ogni parte ha il proprio posto all’interno del tutto, e una conviviale ragionevolezza trattiene gli impulsi più orgiastici. Nel momento in cui il dramma si consuma, il lume della ragione viene soffocato: espulsi e marginalizzati i punti di sobrietà, a imporsi sono i vettori del disordine e della dissoluzione, e lo scempio trova il definitivo compimento. Ad avverarsi, dicevamo, è una sorta di radicale ed esiziale nigredo. In modo contraddittorio, tale stadio ‒ di un’opera nel contempo estetica, politica e alchemica ‒ si colloca nel punto culminante del climax, ma ne rappresenta il vertice più basso, l’apice oscuro, il sole nero di una natura stravolta, degradata e disfatta. Si tratta, in fin dei conti, di una nigredo priva di luce e di apertura; una nigredo che non trova esito in un momento veramente estatico. Non sussiste connessione, non vi è passaggio tra la disintegrazione della forma e l’alba di una nuova vita. A trionfare sono il caos e le rovine: il risultato è un caput mortuum privo di speranza. Tuttavia, all’interno della tragedia, in cui si legge la storia della dialettica conflittuale tra la vita e la forma, lo splendore della componente formale permane, fisso e implacabile. Lo splendore risonante di un film compiuto (perfectus).