La notte del giudizio – Analisi della saga
La nascita di una tradizione americana
Non è affatto un mistero che da quando quel birbacchione scapestrato dello zio Donald, assieme al suo platinato ciuffo tirabaci e alle proverbiali cravatte ascellari, ha messo chiappe e piedoni all’interno della Bianca Casa del potere yankee, non pochi deretani hanno cominciato vistosamente a tremare, tanto agli obesi piani alti della politica internazionale quanto nei denutriti e vessati bassifondi popolati dai poveri cristi. Che Nazi-Trump fosse un tipetto alquanto umorale e abituato a ragionare a scoppio ritardato era cosa già ben nota, ma nessuno si sarebbe mai aspettato un’escalation di demenzialità, incompetenza e pericolosissima guerrafondaggine come quella maturata nell’ultimo anno e mezzo dall’inizio di un impensabile mandato che ha rischiato di lanciare un intero popolo – e l’intero pianeta – in un battibecco atomico con uno stato grande come una cacca di cane e governato da un pacioso pazzoide dagli occhi a mandorla sprovvisto di un competente parrucchiere di fiducia. Qualcuno, però, aveva fiutato per tempo il marcio che covava sornione sotto il tappeto a stelle e strisce, intuendo l’insorgere di una piaga di violenza talmente malsana e allucinante da superare di gran lunga i foschi scenari delle povere ancelle immaginate da Margret Atwood, consegnando alla storia del cinema una delle saghe distopiche più inquietanti che i nostri occhi abbiano mai avuto l’onere (e l’onore) di assimilare. Correva l’Anno Domini 2013 e le candide promesse – in gran parte disattese – dello Yes We Can! obamiano impregnavano ancora un caldo maggio reduce dagli asfissianti strascichi del remake/sequel di Evil Dead e dalle debordanti masturbazioni filmiche de La grande bellezza sorrentiniana. Ed è in questo sonnolento clima da fine anno scolastico, tra una botta di adrenalina alla Fast and Furious 6 e qualche sana cazzaggine demenziale alla Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe che La notte del giudizio (in origine The Purge, con nulla a che vedere con la ben nota pratica di risciacquo intestinale) fece il suo mesto ma provvidenziale capolino sui grandi schermi, portando con sé una piccola ma sconvolgente ideuzza di fondo capace di far tremare, come il buon Dante già ci disse a suo tempo, “le vene ai polsi”.
In un inquietantemente prossimo 2022 gli Stati Uniti d’America sono usciti per il rotto della cuffia da una devastante crisi socio-economica grazie all’intervento dei Nuovi Padri Fondatori, un pool di tipacci poco raccomandabili (dagli evidenti rimandi mussoliniani) responsabili dell’instaurazione di un autentico regime dispotico in grado di ridurre drasticamente il tasso di criminalità grazie al proverbiale “Sfogo”, una giornata all’anno durante la quale, dalle sette del pomeriggio alle sette del mattino, ogni crimine è pienamente legalizzato, senza alcun intervento da parte delle forze dell’ordine o dei servizi di soccorso. Unici veti: niente armi nucleari e niente attacchi ai funzionari governativi di “Livello 10”, quest’ultimi protetti dall’immancabile immunità d’ordinanza. Tutto ciò viene però a costituire il contorno narrativo a un vero e proprio kammerspiel della tensione, un autentico dramma da camera ambientato fra le precarie quattro mura di un’idilliaca villetta di periferia nella quale il buon James Sandin (Ethan Hawake), modesto imprenditore di sicurezza domestica (una beffa coi fiocchi!) si trova costretto a difendere l’impaurita famigliola dagli attacchi di un gruppo di malintenzionati mascherati, sulle tracce di una preda umana rifugiatasi proprio all’interno della magione (apparentemente) a prova di aggressione.
Dietro a questo piccolo ma potente gioiellino della suspense ad alto potenziale esplosivo, imbastito con poco più di 3 milioni di dollari (corrispondenti al rendiconto del servizio catering di una qualunque produzione maggiore) e capace di racimolarne ben 89 in giro per il mondo, si celano la penna e la cinepresa di quel furbacchione di James DeMonaco, autentico genio creativo della distopia 3.0, opportunamente benedetto dall’egida produttiva di Michael Bay e dalla provvidenziale lungimiranza di Jason Blum, quest’ultimo portatore del sacro (e remunerativo) verbo filmico secondo cui “quando la cinghia stringe, il cervello s’ingrossa e le idee scoppiettano felici come i popcorn nel microonde”. Poiché, in effetti, come dicono a Milano, di soldi “ghe n’è minga trop”, DeMonaco si trova a dover abbracciare appieno la rodata filosofia Blumhouse (budget contenuto, tanta passione e una sceneggiatura di ferro), la quale gli permette di dar vita, anche grazie alla distribuzione della Universal, a un incubo di celluloide dove i pestiferi miasmi del futuro America First! trumpiano iniziano a mandare le proprie pestilenziali zaffate ben prima della rocambolesca ascesa dell’abbronzato tycoon. Immancabile la pioggia di critiche da più fronti. Repentina e puntuale la risposta dell’acuto cineasta: “guardatevi un po’ attorno e poi ne riparliamo con calma!”. Con la torta del successo ancora calda e fumante nel piatto, a distanza di poco meno di un annetto, ecco uscire dal forno estivo, bella fragrante e appetitosa, Anarchia – La notte del giudizio (The Purge Anarchy), secondo succulento capitolo di un’ormai annunciata saga, impastata e amorevolmente condita dal medesimo team di cuochi capitanati dalla perturbante fantasia di DeMonaco.
Questa volta il fulcro dell’azione si sposta in campo aperto, rivelando un desolante scenario di guerriglia urbana all’interno del quale il sergente Leo Barnes (un Frank Grillo armato di tutto punto modello Falluja) si trova a difendere un gruppuscolo d’incauti e pacifisti civili costretti, chi per un motivo e che per l’altro, a violare il coprifuoco conseguente all’inizio del micidiale Sfogo, rimanendo, nel frattempo, sulle tracce di colui che, un anno prima, si era reso responsabile della morte dell’amato figlioletto. Con ben (si fa per dire!) 9 milioni di dollari a disposizione, stavolta DeMonaco se la può decisamente godere alla grande, imbastendo succulente sequenze di combattimento da strada degne della migliore iperviolenza pulp tarantiniana e che non sfigurerebbero certo dinnanzi alle iconiche scorribande post-apocalittiche carpenteriane. Il tutto, ovviamente, all’insegna di una strisciante e sorniona critica socio-politica che inizia a insinuare il dubbio che la celeberrima “Purga”, e le sue stesse dinamiche, altro non siano che il frutto di invisibili quanto subdole orchestrazioni ai piani alti, col solo scopo di ridurre non solo il tasso di criminalità ma anche di sfoltire, in puro stile nazi-repubblicano, ogni tipo di aberrazione e “rifiuto” della società, sempre, ovviamente, ai danni dei più deboli e indifesi.
Arginato, senza troppi sforzi, l’ennesimo sterile torrente di critiche perbeniste a suon di discreti riscontri di pubblico e di sonanti incassi (ben 111 milionicini in all the world signore e signori!), zio James e babbo Jason attendono un paio d’anni prima di licenziare, fieri e ottimisti più che mai, La notte del giudizio – Election Year, terzo debordante capitolo confezionato ad uopo in vista dell’imminente battaglia elettorale per decretare il nuovo inquilino del 1600 di Pennsylvania Avenue. E stavolta la mannaia della distopia futuribile si abbatte più tagliente e lungimirante che mai. Ritorna alla carica il buon Frank Grillo alias Leo Barnes, sopravvissuto alla precedente mattanza purificatrice e assunto all’interno dello staff di sicurezza a protezione della candidata presidenziale democratica Charlie Roan (una Elizabeth Mitchell decisamente più piacente e conturbante della corrispettiva Hillary “Iron Lady” Clinton), decisa a ingaggiare un’agguerrita battaglia elettorale (e non solo) contro il senatore filo-repubblicano Edwige Owens (Kyle Secor), un religioso ultra bigotto e fuori di cotenna propenso non solo a mantenere ma a inasprire ulteriormente la consueta “Purga” annuale, invocando l’intera schiera celeste con annessi e connessi. Non servono ulteriori commenti, basta solo attendere qualche mese e aprire un qualunque giornale per rendersi conto di quanto la sconvolgente capacità profetica di DeMonaco abbia saputo valicare gli stessi limiti della carta e dello schermo, peccando tuttavia di un fisiologico ottimismo che, purtroppo, nella nostra dimensione, non si è infine avverato. Caso più unico che raro in cui la realtà ha saputo superare e disattendere di gran lunga la più accanita fantasia.
Eletto all’unanimità migliore capitolo dell’intera saga – oltre che più remunerativo, con un incasso globale di ben 118 milioni di dollari, a fronte di un budget di 10 tondi tondi –, Election Year era stato originariamente programmato per esordire sugli schermi americani il 4 luglio, ma l’evidente ironia, in concomitanza con la festa nazionale a stelle e strisce, non deve essere piaciuta molto all’ultra conservatrice establishment hollywoodiano, costringendo a una rocambolesca anticipazione per il 1 luglio. Poco male in realtà, poiché stavolta le carte in tavola iniziano progressivamente ad essere scoperte e gli occulti altarini del potere deviato balzano fuori da sotto il tappeto come scarafoni dinnanzi al DDT, rivelando le vere trame occulte dietro alla “politica della purificazione” e mettendo finalmente in scena il provvidenziale intervento di una resistenza armata stile Alba Rossa. Gli Hunger Games fra poveracci, imbastiti ad uso e consumo degli spietati palati aristocratici, protetti dall’immancabile immunità ad personam, costituiscono il punto più alto dell’intero impianto narrativo finemente tessuto da DeMonaco e compagnia, senza ovviamente disdegnare la consueta dose di cattiveria gratuita e di assalti guerriglieri, stavolta sullo sfondo di un autentico attacco frontale alle derive più estremiste dell’istituzione governativa, purtroppo divenute in gran parte realtà dopo che zio Donald si è opportunamente accomodato alla scrivania di J.F. Kennedy dinnanzi all’ampia finestra della Stanza Ovale. Eccessivo pessimismo dite voi? Beh, diciamo pure che tra una “Purga” costituzionalmente legalizzata e la proposta di armare l’intero corpo insegnanti d’America, non corre poi così tanta distanza, no?
Ormai il clima di paranoia dilagante codificato e brevettato dalla saga de La notte del giudizio sembra aver attecchito in maniera prolifica e sostanziosa, soprattutto dopo l’annuncio dell’emittente Syfi di voler dar vita a una serie televisiva dedicata alla creatura distopica partorita da DeMonaco, incentrata stavolta sui 364 giorni precedenti allo scoppio dell’annuale Giornata della Purificazione, mediante una complessa struttura a flashback che avrà come protagonista Miguel (il Gabriel Chavarria di The War – Il pianeta delle scimmie), un militare americano richiamato a casa da una misteriosa lettera della sorella e ben presto invischiato nel destino della giovane Penelope (Jessica Garza di Six), pronta a sacrificarsi in nome di un carismatico capo religioso ma ben presto messa dinnanzi alle atrocità della Notte del Giudizio. Con DeMonaco stesso alla guida di dieci episodi e grazie alla collaborazione dello showrunner Thomas Kelly, questo progetto seriale si preannuncia davvero molto ambizioso, ma non tanto quanto l’attesissimo quarto capitolo della saga filmica, La prima notte del giudizio (The First Purge), annunciato prequel in uscita, come ormai da copione, alle soglie del caldo luglio, dove finalmente si avrà modo di risalire fino agli eventi primigeni che hanno portato al potere i Nuovi Padri Fondatori, con il conseguente prototipo della prima vera Giornata della Purificazione. Anche se questa volta dietro alla macchina da presa vi sarà per la prima volta Gerard McMurray, lo spirito (e il portafogli) di James DeMonaco rimangono sempre dietro alle quinte, pronti a intervenire con un ennesimo pugno nel flaccido e gorgogliante basso ventre di una nazione ormai sempre più prossima a cadere vittima della medesima anarchia che, nella finzione cinematografica, i nuovi dispotici governati hanno tentato di combattere, con il paradosso delle medesime armi. L’unica vera differenza fra lo schermo e la realtà sta nel fatto che il dittatore attualmente installatosi alla White House è uno solo. E, diciamo pure, che per noi basta e avanza!