La parabola delle sorelle Hemingway
Ascesa e declino di Margaux e Mariel
Strano e triste destino quelle delle sorelle Hemingway, Margaux e Mariel. Condannate a portare il peso di un cognome importante e dall’eredità psicologica di un nonno tanto famoso quanto assente. La più grande delle due, Margaux, era una ragazza di una bellezza sconvolgente, bionda, alta e dai lineamenti marcati e gentili al tempo stesso. Per non parlare di quegli occhi azzurri… Il nome le era rimasto in eredità da una serata di bisboccia a base di Château Margaux, nella quale papà Jack e mamma Puck l’avevano concepita. Con un fisico così fare la modella era il suo karma: le viene infatti offerto da Fabergé un contratto milionario per diventare la testimonial del profumo Babe. In quegli anni – siamo nei primi ’70 – non si contano le copertine che le vengono dedicate, tanto che diventa la top-model di riferimento del panorama fashion newyorkese. A New York c’era arrivata per amore, col suo primo marito, ma mentre la carriera sembrava decisa a decollare, il matrimonio si rivelò un completo fallimento. Un ciclone biondo come lei non poteva non essere notato dal cinema e Dino De Laurentiis la volle come protagonista di Stupro (Lipstick, 1976) di Lamont Johnson, regista solitamente impantanato nel marasma televisivo. Il film è la storia di una top model (Margaux) che viene stuprata dal professore di musica (Chris Sarandon) della sorellina più piccola (Mariel). Lei lo denuncia, ma lui ne esce pulito e ci riprova, stavolta con la più piccola, e alla modella non resta che imbracciare il fucile… Non male. Un classico del rape & revenge, in cui la sadica violenza a tergo, fa da glaciale specchio riflesso all’immagine perfetta di Margaux, immortalata in tanti servizi fotografici. Un momento che dà fastidio e fa (quasi) sentire in colpa lo spettatore-guardone che per la prima volta può godere del suo corpo senza veli. In Stupro, Margaux riempie gli spazi e non lascia apparire nessun altro, men che meno quella ragazzina tutt’altro che perfetta che era Mariel, all’epoca neanche quindicenne.
Paffutella, sgraziata, una versione informe di Margaux, nessuno poteva immaginare che dietro Mariel si nascondesse una timida crisalide pronta a sbocciare nella farfalla più incantevole della famiglia. Tre anni dopo, infatti, mentre la sorella finiva imbrigliata nelle reti da pesca di un Antonio Margheriti che voleva fare l’americano in Killer Fish, agguato sul fondo, Mariel svolazzava libera e felice tra le braccia di Woody Allen in Manhattan, contrapponendo la sua giovanile esuberanza alla crisi di mezza età di un uomo incapace di amare. Mariel è strepitosa, completamente fiorita e ci mancò poco che vincesse un Oscar come migliore attrice non protagonista. Margaux, intanto, scivolata subito fuori dal movie-business, si consolava come poteva nelle feste dello Studio 54 tra frullatoni di droga e alcol. Del resto, lei soffriva anche di epilessia e di depressione, proprio come il nonno. Per Mariel, invece, il sogno americano era appena cominciato. Disinibita e disposta a mostrare il suo corpo, non proprio scultoreo come quello della sorella ma (forse) proprio per questo più burroso e seducente, venne reclutata dal quotatissimo sceneggiatore Robert Towne (quello di Chinatown e Shampoo) che la vuole come protagonista del suo debutto alla regia in Due donne in gara (Personal Best, 1982). Nel film Mariel è Chris una giovane atleta di decatlon che si trova costretta in uno scomodo triangolo amoroso con un’altra donna (Patrice Donnelly) e un uomo (Kenny Moore). Lei non è né lesbica né bisessuale, ma solo una ragazza confusa in cerca dell’amore e dell’affermazione di se stessa (attraverso lo sport, il sesso, i confronti…).Towne racconta una storia agonistica che è metafora di vita, ma tradisce anche uno sguardo voyeuristico e morboso inaspettato. Le ragazze si incontrano e confrontano sempre in sauna, la Hemingway e la Donnelly si avvinghiano nude sul lettino fin dai primissimi incontri e, durante i salti con l’asta, la camera è posizionata sempre all’altezza dell’infracosce, in modo da esporre le mutandine candide che fanno capolino da short poco attillati. C’è sana propensione per la materia, tanto da riuscire a ricreare un momento di vera intimità di coppia nella scena in cui Chris costringe il suo nuovo boyfriend a fare pipì mentre lei glielo tiene in mano. Mariel ne esce alla stragrandissima e l’anno dopo sarà quello della consacrazione. Intanto Margaux continuava a farsi del male recitando nel terribile Continuavano a chiamarlo Bruce Lee (They Call Me Bruce?, 1982), pellicola americana del coreano Elliott Hong a metà tra arti marziali e commedia pecoreccia.
Nel 1983 Mariel fu scelta da Bob Fosse per interpretare la drammatica vita della coniglietta di Playboy, Dorothy Stratten, violentata e massacrata dal suo ex-compagno/agente Paul Snider (un Eric Roberts meritevole dell’Oscar). Star 80 è un capolavoro, pregno di erotismo malinconico e cinismo spietato. Uno sguardo allo star system americano impietoso e selvaggio, in cui il corpo lattemiele di Mariel emerge come una creatura divina tra lo squallore generale. C’è qualcosa di veramente morboso nello spiare le generose nudità di una ragazzina ingenua circondata dalla cupidigia di un branco di lupi affamati. Ma Fosse non giudica, fotografa, e questo lo rende unico nella messa in scena del dramma erotico. E lei è creatura da sogno, coraggiosa e spavalda mentre si lascia fotografare nuda e col viso imbronciato così perfettamente imperfetto rispetto a quello nobile della sorella. Margaux intanto si sposa e divorzia nuovamente (non sarà l’ultima volta) mentre fatica a trovare un ingaggio che possa riscattare nuovamente la propria immagine e prova, senza particolari esiti, ad apparire nuda su Playboy (maggio 1990).
In totale caduta libera finisce pure nell’erotico di Joe D’Amato, Il segreto di una donna (1992) con Daniel McVicar e Apollonia. Margaux è una donna in fuga dal marito, che si innamora di un giornalista conosciuto a New Orleans (McVicar) e si scopre invece essere un killer assoldato per ucciderla. Molto soft, come tutte le produzione Filmirage dell’epoca, Il segreto di una donna ci rimanda l’immagine di una Margaux Hemingway, che, nonostante il primo nome in cartellone, mostra chiaramente la stanchezza di anni consumati tra vizi e abusi. Il suo seno sfiorito viene languidamente accarezzato dal coltello a serramanico di McVicar, in una scena che non preserva né l’erotismo di altri film di D’Amato né l’angoscia della violenza carnale in Stupro.
Si avvicinava la fine dei giochi mentre, nel frattempo, Mariel macinava un film dietro l’altro. Era la fidanzata in pericolo di Kurt Russel in Maledetta estate (The Mean Season, Phillip Borsos, 1985) e la moglie in provetta di Peter O’Toole in Dr. Creator, specialista in miracoli (Ivan Passer, 1985), tutti ruoli mainstream che non hanno minimamente influito sulla crescita della sua popolarità. Anche lì qualcosa era successo: l’incantesimo si era spezzato e Mariel Hemingway aveva finito per eclissarsi nel mare magno delle attrici di contorno. Volti e corpi anonimi, buoni giusto come oggetti d’arredo. Margaux Hemingway fu rinvenuta morta il primo luglio del 1996, un giorno prima dell’anniversario della scomparsa del nonno. Il reperto fu overdose da barbiturici (pentobarbital, il farmaco che si usa per curare l’epilessia). Soffriva da tempo di depressione e si pensa al suicidio. Mariel, invece, ha continuato per la propria strada, accettando l’inevitabile parabola discendente della carriera. La maledizione degli Hemingway le ha segnate entrambe rendendo, però, immortali quei fuggevoli attimi di beltà che hanno visto le due sorelline protagoniste della scena glamour internazionale.