La piccola cineteca degli orrori

Continua la rassegna del bizzarro con il film Gargoyles di Jim Wynorski
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È ormai dalla notte dei tempi che si continua a discutere senza sosta su chi debba fregiarsi del tanto ambito titolo di peggior regista della storia del cinema. Molti nomi sono stanti tirarti in ballo, da quello altamente inflazionato del mitico Ed Wood a quello altrettanto celeberrimo del ruspante Uwe Boll, senza scordare gentaglia del calibro di Andy Mulligan e, ovviamente, David DeCoteau. Ed è appunto in questa allegra combriccola di infami stupratori della Settima Arte che una personalità come quella di Jim Wynorski non può certo passare inosservata, grazie a un pedigree di tutto rispetto in grado di rendere questo nome fra i più papabili al soglio dell’indecenza fatta regia. Entità fra le più fetenti partorite dalla factory di Roger Corman, il nostro caro Jim si è meritatamente guadagnato il (pochissimo) rispetto di orde di agguerriti cinefili, grazie a una più che trentennale carriera nella quale, con all’attivo oltre settantacinque pellicole di valore ben meno che infimo, le occasioni per appendere la cinepresa al chiodo e tornare a zappare la terra non sono di certo mancate. A dirla tutta il buon Wynorski aveva già fatto presagire fin da giovincello l’infimo destino che lo avrebbe atteso durante la futura carriera lavorativa, soprattutto dopo essersi beccato una sonora bocciatura dai lungimiranti professori della scuola di cinema nella quale pascolava a inizio anni ’70 e un altrettanto profetico calcione nel didietro dall’ufficio risorse umane del programma televisivo Breaking Away. A questo punto, in un equo e idilliaco universo, il nostro avrebbe messo da parte i propri infranti filmici sogni per tornarsene quatto quatto nella nativa Long Island, trovando magari la giusta dimensione come tolettatore di facoceri o addetto allo spurgo di una qualche casa di cura. E invece, per qualche arcano e profondamente ingiusto motivo, il fato ha deciso baciare con la lingua la trasferta losangelina del tosto Jim, portandolo nientemeno che al cospetto della brulicante bottega degli orrori a costo quasi zero dello zio Corman, zompettando un po’ ovunque fra sceneggiature di infimo ordine, qualche scadente trailerino e consegne espresse di caffè fumante. Ma si sa come vanno queste cose: scrivi di qua, dirigi di là, ed ecco che, giusto a metà dei reaganiani anni ’80, l’allora sconosciuto nomignolo di vaga origine slava – in seguito celato sotto l’americanissimo pseudonimo di Jay Andrews – fa il suo debutto nei titoli di testa di The Lost Empire, pellicola fantascientifica di vaga aspirazione fantasy a cui sarebbe seguita nel 1986 il più che onesto Chopping Mail, una sorta di mashup fra Corto Circuito e Runaway prodotto nientemeno che da Julie Corman in persona.

Gargoyle (2004)_032 Tim Abell and Jim Wynorski

E fu appunto grazie al provvidenziale sponsor della consorte del Re Mida del cinema a un dollaro se la carriera del nostro Jim ebbe modo per così dire di decollare, attraversando ben due decadi all’insegna di una schizofrenia registica, passando da produzioni tipicamente cormaniane (The Return of Swamp Thing, Transylvania Twist) a insospettabili filmettini per famigliole (Munchine, Little Miss Milions), per poi buttarla letteralmente di fuori con action al limite dell’imbarazzo (Stealth Fighter, Final Voyage) e thillerini che definire erotici è un insulto al comune senso del pudore (Sins of desire, Point of Seduction). Ma se a cavallo fra gli ’80 e i ’90 il caro Jim riuscì a mantenersi per il rotto della cuffia nella confort zone della più che dignitosa serie B, è con l’avvento dell’infame nuovo Millennio che le cose iniziarono a farsi miseramente laide, rompendo la tanto temuta barriera della serie Z e gettando a capofitto il nostro registucolo in profonda zona retrocessione, grazie a perle di ingloriosa bruttezza come The Bare Wench Project – allucinante parodia sessuale del celebre mockumentary in to the woods della coppia Myrick-Sanchez – e, tanto per fare il verso al povero Dan Brown, The Davinci Coed. Ma fra tutte queste perle di bruttezza furono infine i monster movie ad averla vinta, portando il pazzo Wynorski alle soglie del 2004 a confezionare, accanto a sordidi exploit come Raptor e l’immortale saga di Dinocroc, quel capolavoro di fetenzia a ventiquattro fotogrammi al secondo che risponde al titolo di GargoylesDistribuito in patria con la formula direct-to-video così come la gran parte della desolante filmografia wynorskiana, questo ignobile creature film – che all’occorrenza risponde tanto al nome di Gargoyle: Wings of Darkness quanto a quello di Gargoyles’ Revenge – si basa su una loffissima trama che vede una coppia di agenti della CIA intenti a portare a termine in quel di Bucarest il salvataggio del figlio di un ricco uomo d’affari caduto nelle grinfie di uno scalcinato gruppo di criminali, salvo poi trovarsi impelagati in una lotta all’ultimo sangue con un nugolo di famelici gargoyle, antichissime creature mitologiche risbucate dalle profondità della fetida terra nella quale erano state secoli addietro imprigionate a causa di un inopportuno terremoto. Attraverso un delirante prologo, ambientato in una Romania medioevale tanto fittizia da sembrare più uno scampolo di campagna marchigiana, apprendiamo infatti che l’ultimo dei mostri alati, dopo aver impudentemente accoppato una dolce pulzella intenta a darsela a gambe a bordo del suo fido carretto, venne cacciato a forza nel sottosuolo da un impavido sacerdote, armato soltanto di freccia, balestra e del proprio purissimo cuore.

gargoyles

Ed è appunto tale mitica arma, maneggiata da un altrettanto integerrimo guerriero non meglio identificato, l’unica difesa che agli albori del nuovo millennio i nostri poveri protagonisti sembrano avere a disposizione per potersi difendere da orripilanti creature uscite dritte dritte da uno scadente videogioco di metà anni ’90, capaci di scorrazzarsene per i cieli in pieno giorno senza che uno staccio di radar riesca a identificarli. Ma tralasciando il più che ovvio ribrezzo suscitato da una CGI di quint’ordine e ingenuità diffuse come herpes a una festa di arrapati liceali, il mastodontico problema alla base di questo Gargoyles sta proprio nella totale mancanza di logica che regola gli accadimenti e le motivazioni dei suoi personaggi, tra agenti governativi tanto incapaci da far sembrare Austin Powers degno di un Nobel e cattivi così stupidi da suscitare niente più che una cocente pietà. E dire che di gentaglia chiamata a metter zampa a questo orrido script ve n’è stata più che a sufficienza, contando, oltre all’onnipresente Wynorski, loschi e purtroppo tutt’altro che sconosciuti tipacci del calibro di Jon Ionescu, Anthony L. Greene e William Langlois, tutti impelagati da tempo immemore in produzioni nelle quali la decenza è soltanto un antico ricordo. Se infatti generalmente due teste sono meglio di una, quattro zucche del genere, per giunta vuote, non posso certo dar vita a qualcosa di buono, finendo per gettare al vento i già miseri dollari sborsati con enorme riluttanza da Lions Gate, Cinetel e Avrio Filmworks. Gli attacchi a tradimento dei nostri divoratori alati, compiuti con la sconcertante precisione di un cacciabombardiere nuovo di zecca, laddove dovrebbero suscitare sorpresa e sgomento riescono solo a gettarci ancora di più nello sconforto, sempre che il loro imbarazzante aspetto, frutto di effetti che definire digitali sarebbe una sonora bestemmia, non basti già da sé a far scendere il livello di pudore oltre il punto di non ritorno. C’è di buono che, come di consueto per le opere del caro Wynorski, passato il raccapriccio iniziale non si può fare a meno che ridere di gusto di tutto e di tutti, iniziando da colui che ha osato anche solo concepire un obbrobrio del genere e scendo giù  giù fino ad attori che farebbero meglio a interrogarsi a lungo sul senso profondo della propria vita lavorativa, con un occhio di riguardo a quel Michale Paré che ormai sembra trovarsi a proprio agio solo all’interno di pellicole degne soltanto per il macero. Che Gargoyles sia un film brutto assai pare cosa ormai chiara; tuttavia è sempre meglio saggiare coi propri occhi l’accuratezza di un tale giudizio, almeno per essere sicuri che il livello di fetenzia indicato sull’etichetta non debba essere ulteriormente rivalutato. Al ribasso ovviamente!