La piccola cineteca degli orrori: La casa della peste
Una delle più laide e deprimenti esperienze che la celluloide abbia mai avuto la disgrazia di catturare
Tanto per stare in tema, che ne dite di parlare un po’ di peste? Ma si dai! D’altronde, in un modo o nell’altro, a questo giro dovremmo essere tutti più o meno grandi e, si spera, vaccinati. Non basterebbero tuttavia i migliori vaccini in circolazione per difendersi dall’acutissimo attacco di diarrea cronica provocato dal solo nominare un titolaccio come La casa della peste. Uno dei più sfacciati e indecorosi esempi di quanto il fu glorioso cinema di serie B dei bei tempi andati sia miseramente caduto in totale disgrazia con l’avvento del nuovo Millennio. Sarebbe troppo facile scagliarsi a spada sguainata contro un povero cristo come Curtis Radclyffe, in quanto il fato, almeno per una volta nella vita, pare aver fatto il proprio sporco e provvidenziale lavoro, relegando questo pedestre cineasta da quattro soldi nel profondo oblio dopo solo due exploit di qualità decisamente al di sotto del pudico livello di guardia. Correva l’anno di (dis)grazia 2008 quando due delle più insipide case di produzione della terra dello Zio Sam come la Hopscotch Films e la iDreams Productions decisero, per qualche insondabile motivo, di uscire ciascuna dal proprio confortevole humus per tastare – coraggiosamente verrebbe da dire – gli insidiosi terreni dell’horror. Ma chi fino all’altro ieri era abituato ad avere le mani in pasta fra drammi familiari, corti educativi e documentari assortiti senza mai aver fatto scorrere la ben che minima gocciolina di sangue sui propri schermi, beh, diciamo pure che qualche problemino di inquadramento potrebbe averlo di certo avuto. Ma nonostante una premessa tutt’altro che confortante, pareva che la volontà di creare un onesto prodotto di puro intrattenimento con quei quattro spicci a disposizione ci fosse tutto, facendo ben sperare circa un virtuale successo nel mercato dell’home video. Si perché, sia chiaro fin da subito, La casa della peste nacque, crebbe e morì ben al di fuori del buio della sala, conscio del proprio scarso valore di partenza che non lo avrebbe mai reso degno di sostare nemmeno per un nanosecondo all’interno di uno schermo superiore ai trenta pollici e mezzo. Ed è in questo opprimente clima di voglio ma non posso che il nostro Radcliffe venne chiamato a reggere quanto più saldamente possibile il timone della scricchiolante baracca, arrivando persino a condividere la propria non certo brillante penna con quelle altrettanto spuntante di Marc Zakian, Romla Wlaker, Philip Caveney e Matthew James Wilkinson per partorire infine uno script potenzialmente stuzzicante ma che si rivelò ben al di sotto del comune senso del pudore.
Uscita decisamente in sordina nel desolante marzo del 2008 con il profetico titolo originale di The Sick House, la suddetta opera dell’orrore rientra a pieno titolo in quella categoria di film che, per usare una specifica terminologia coniata da eminenti studiosi della cinematografia, si potrebbero definire una “paraculata”, ovvero concepiti con il preciso e diabolico intento di gettare quanto più fumo possibile negli occhi degli ignari spettatori, al punto di non renderli più coscienti della pochezza che si cela sotto questa spessa coltre di aria fritta. Un film insomma che, tra un ritmo di montaggio da trip allucinogeno, una colonna sonora degna della più brutale sessione di tortura sovietica e una fotografia che pare uscita da uno scassatissimo Siemens MC60 permette di vivere una delle più deliranti e sofferte esperienze di visione che cinefila memoria umana possa evocare. Ed nel mezzo di tutto questo marasma e miasma che la povera Gina Phillips, reduce dagli allora ben più fulgidi fasti di Jeepers Creepers, si trova a impersonare, con quel poco di convinzione che ancora le rimane, la giovane archeologa Anna, responsabile di una serie di ricerche che hanno come fulcro un ospedale risalente nientemeno che al nefasto tempaccio della terribile peste di Londra del 1665. Nonostante il ritrovamento di alcuni interessanti reperti – tra cui una misteriosa bambolina di pezza forse appartenuta ad uno dei numerosi giovani pazienti deceduti in circostanze poco chiare e un prezioso documento che pare evocare la figura di un inquietante medico al centro di una setta mistico-scientifica – la nostra bella dottoressa si vede chiudere in faccia il proprio ambizioso progetto, con lo spettro di un’imminente demolizione dell’intero stabile che butterebbe alle ortiche mesi e mesi di duro lavoro. Ed è per questo che la nostra impavida eroina, in barba a tutto e a tutti, decide nottetempo di intrufolarsi alla chetichella nel sinistro rudere, senza sapere che un gruppetto di quattro scapestrati fattoni e alcolizzati (Alex Hassell, Kellie Shirley, Andrew Knott e Jack Balley), reduci da un improvviso incidente stradale durante i festeggiamenti del ventunesimo compleanni di uno di loro, si sono anch’essi addentrati nella pericolante struttura per poter apportare le doverose cure al loro compagno dolorante.
Rimasti inspiegabilmente bloccati all’interno delle inquietanti mura grondanti di ombre dal passato, i nostri si troveranno a dover fare i conti non solo con un improvviso ritorno di fiamma del fu terribile morbo, ma bensì anche con gli spettri della già citata setta capitanata dal temibile Medico della Peste, quest’ultimo desideroso di reincarnarsi nel pupattolo che una delle ignare donzelle porta in grembo per poter così continuare a perpetrare i propri orrori anche nella sacra epoca degli smartphone e del Viagra. Ad eccezione di una scena decisamente disturbante che ci spiattella senza troppi complimenti lo squartamento di un ventre gravido dove giace a sorpresa una bambolina ben protetta da un nugolo di schifosissimi serpentelli, i tediosi cento minuti che compongono La casa della peste si rivelano alquanto stitici di momenti degni d’interesse, inanellando una serie di corse a per di fiato tra i bui corridoi dello scalcinato ospedale in cui la scarsa qualità della fotografia e dell’illuminazione a membro di cane fanno a gara con una recitazione da denuncia civile e penale. La sensazione che si prova nell’arrivare in fondo a questo folle e schizzato viaggio non è poi così diversa dall’aver passato un intero pomeriggio sulle montagne russe dopo essersi sicofanti a pranzo una tostissima impepata di cozze con doppia porzione di torta di ricotta. Un malessere fisico ed esistenziale che, come nella più potente delle indigestioni, solo una bella evacuazione corporale è in grado di alleviare. D’altronde l’entità e la consistenza dell’oggetto in questione, alla fin della fiera, appaiono praticamente le stesse.