Hotel Pasolini. Un’autobiografia
Perché l’uomo che rese possibile il cinema di Pasolini, dopo anni di film discussi e di scelte coraggiose, di successi e di premi, venne poi dimenticato da tutti?
Chi ha fatto quel film? È il titolo di un bellissimo libro di interviste a cura di Peter Bogdanovich. Un libro sui registi, è ovvio, perché per chiunque chi “ha fatto il film” è il regista. Ma questa nozione è il risultato di una politica che la critica europea ma anche americana ha condotto a partire dal secondo dopoguerra e, se è stata fondamentale nel momento in cui si è diffusa, non rispecchia la realtà delle cose nella loro complessità. Non voglio qui addentrarmi in una questione spinosa e di difficile risoluzione ma certamente è necessario che ci si sforzi di capire che se il regista ha un ruolo fondamentale nella creazione del film (seppur sempre insieme ad altre figure, a volte addirittura prevalenti), c’è una figura altrettanto fondamentale che permette al film di essere concretamente realizzato e distribuito ed è quella del produttore. Il produttore cinematografico viene spesso considerato solamente come colui “che mette i soldi”, come se fosse solo un portafoglio senza idee, o un semplice investitore. Non è così, e non è stato così in particolare per Alfredo Bini, il produttore che credette che un poeta potesse essere regista. Grazie al Saggiatore e al lavoro di Simone Isola, che su Bini ha girato nel 2015 un documentario dal titolo Alfedo Bini, Ospite inatteso e che, grazie a Giuseppe Simonelli, ha avuto accesso alle sue molte carte e scritti personali, da qualche mese possiamo leggere Hotel Pasolini. Un’autobiografia. Dietro le quinte del cinema italiano, un libro di memorie che il produttore non poté vedere pubblicato ma a cui teneva moltissimo.
Dobbiamo essere grati all’editore e ai curatori di questo libro perché la vita di Alfredo Bini, tra i produttori più anomali, coraggiosi e liberi del cinema italiano, andava raccontata. Ed è lo stesso Bini a farlo, con la sua lingua schietta, immediata e coinvolgente. Quella di Bini è una vita in perenne corsa, a perdifiato, sempre alla ricerca di avventura, di occasioni, senza fermarsi mai, senza accontentarsi, sempre saltando gli innumerevoli ostacoli, sempre alla ricerca di una via di fuga, di nuove sfide, per il puro gusto della libertà. Libertà amata nella sua assolutezza, non legata ad ideologie politiche. Bini, per fare un esempio, non era comunista come Pasolini ma riteneva che il suo cinema fosse superiore alle stesse contrapposizioni politiche e potesse essere tra i più grandi del mondo. Per questo sogno ha combattuto contro la giustizia italiana nella paradossale contraddizione tutta italiana di film passati in censura ma poi sequestrati dalla magistratura, bloccati per mesi o anni, condannati in primo e secondo grado e poi assolti in cassazione, quando ormai il danno era fatto, l’investimento bruciato. Basta solamente leggere questo libro per riconsiderare la figura del produttore nel cinema, italiano in particolare. Di libri simili dovrebbero essercene di più perché il produttore è sicuramente la figura meno studiata nel cinema italiano.
Hotel Pasolini. Un’autobiografia. Dietro le quinte del cinema italiano è un libro secco, senza fronzoli ma pieno di storie, flash di memoria, ricordi, retroscena, aneddoti. Sicuramente il lettore di nocturno sarà curioso di leggere, ad esempio, qualche storia sui film esotici/erotici prodotti con Piero Vivarelli (Il Dio serpente, Il Decamerone nero e Codice d’amore orientale) o su Gli eroi di Duccio Tessari. Un altro capitolo di interesse nocturniano è sicuramente quello su Bora Bora (1968) di Ugo Liberatore, film dalle complesse vicissitudini censorie graziato dalla presenza della bellissima Haydée Politoff (aveva esordito l’anno precedente in La collezionista di Eric Rohmer). Ma se dovessi citare una sola storia racconterei, ovviamente, di Accattone. Fellini (con la sua Federiz, in coppia con Rizzoli), amico e sostenitore del poeta, volle produrre l’esordio cinematografico di Pasolini. Le riprese iniziarono, ma dopo una settimana di lavorazione, visti i primi giornalieri, Fellini, enormemente deluso dai risultati, decise di interrompere la produzione convinto che Pasolini fosse un grande poeta ma non potesse essere regista. L’arrivo di Bini, quasi esordiente nella produzione (ma aveva già prodotto Il bell’Antonio di Bolognini, tra le opposizioni dei censori), con le sue intuizioni, con la scelta delle figure giuste ad affiancare il regista, rese possibile un film che si distinse nel cinema italiano come un’eccezione, come una differenza che dà scandalo. E non furono da meno i seguenti sei lungometraggi che produsse con Pasolini in sette anni di furibondo lavoro senza pause, in perenne lotta con l’arretratezza culturale italiana e le anomalie giudiziarie.
Il piacere che dà questo libro, per i nocturniani e non solo, è davvero grande. Credo sia importante leggerlo per capire quanto un produttore sia importante e debba far convergere “una pluralità di interessi e di competenze, di tipo economico, amministrativo, critico, artistico, tecnico e operativo”, come scrive lo stesso Bini. E in conclusione per scoprire una figura unica nel panorama cinematografico italiano, un uomo davvero al limite, capace di arrivare in taxi, in pieno assedio di Sarajevo e scendere in doppio petto davanti agli occhi dei giornalisti barricati in albergo. Alfredo Bini voleva girare l’assedio di Sarajevo con Margarethe Von Trotta praticamente in diretta e il pericolo non lo ha fermato. Quel film, come tanti altri, non fu mai girato. E allora, come rispondere alla domanda posta all’inizio? Alfredo Bini ha vissuto gli ultimi suoi anni con una pensione minima, ospitato in un albergo da una persona che si è generosamente occupata di lui. Solo nel 2009, un anno prima della morte, a 83 anni, ottenne il vitalizio della legge Bacchelli.
Non c’è purtroppo una spiegazione consolatoria. Dopo il 1974 tutto il sistema cinema italiano entrò in crisi (secondo il produttore contò molto l’eliminazione dell’obbligo di reinvestimento nella produzione di film italiani di parte del ricavato dai film americani) e contemporaneamente Alfredo Bini incontrò alcuni fallimenti, professionali (film sempre sequestrati, processi giudiziari, il naufragio del leggendario progetto de L’inferno di Dante) e personali (il divorzio dalla moglie Rosanna Schiaffino). Certo, l’emarginazione di Bini fu motivata anche dai fallimenti economici. E sono molti i progetti non realizzati, come, tra i tanti, le collaborazioni sfumate con Gabriel García Márquez, Jorge Amado e Aldo Busi. Tante le idee geniali e grandiose, come il progetto pionieristico del 1976 di una rete di sale cinematografiche che ottenesse i diritti per eventi sportivi, musicali, artistici e potesse proiettare anteprime in forte concorrenza con la televisione allora ancora sotto il monopolio RAI. Che cosa sarebbe successo se il progetto non fosse stato rifiutato da tutti? Sarebbe cambiato tutto?
Insomma, Bini fu profeta inascoltato e incontrò il fallimento. Ma non si può nascondere che, in questo allontanamento dal cinema e nell’ostracizzazione dalla RAI ha contato, a mio parere, il desiderio di non omologazione, l’ostinata lotta contro le chiusure culturali del nostro paese, l’essere un uomo senza bandiere. Alfredo Bini è stato emarginato perché ha detto troppi no, perché ha desiderato troppa libertà. Ma i film che ha reso possibili rimarranno, finché saremo qui a vederli, a studiarli e ad amarli.