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Il Signor Diavolo

Autore:
Pupi Avati
Editore:
Guanda

Il nostro giudizio

Un calendario delle audizioni e i rapporti del tribunale. Risultati autoptici e perizie balistiche. Polverosi registri parrocchiali e contorte deposizioni. È dunque questa l’architettura cartacea del nuovo romanzo “del gotico maggiore” firmato dal regista di La Casa dalle finestre che ridono. Imbastito secondo la linea tracciata da quel Dino Buzzati che, narrando dei suoi mostri adorati, già confessava l’utilizzo essenziale di un linguaggio quasi burocratico, talmente concreto da far credere a un rifinito rapporto di questura, in grado di rendere plausibili tutte quelle storie che in sé e per sé risultavano estreme se non assurde. Si cela davvero il diavolo tra le pagine del raggelante romanzo di Pupi Avati, Il Signor Diavolo. Il Maligno, incalzato dall’ottimismo di un’Italia che si accinge alla ricostruzione post-bellica, si è qui rifugiato nelle zone grigie dell’istruttoria affrontata dall’afflitto Furio Momentè. Un uomo privo di qualsivoglia eroicità, assunto nei ranghi ministeriali frequentando più le parrocchie romane che le sedi di partito, ma dotato della “normalità” necessaria per recarsi in missione all’inferno in cerca di un salvataggio elettorale. Perché, nell’Italia degli Anni ’50 e della D.C. che vara il settimo governo De Gasperi col massimo consenso dei votanti, c’è ancora un luogo che trattiene in sé la sinistra sacralità di ciò che è più arcaico e suggestivo. Lì dove i bambini sentono le voci dei morti e la superstizione va a braccetto con i “bestiari” del cattolicesimo pre-conciliare. Nella frazione di Lio Piccolo, tra le nebbie della laguna veneta, la morte di due ragazzini squarcia la tenda nera che avvolge un nordest remoto fino all’arcano. Dove perfino al diavolo viene tributato l’appellativo di “Signore”, come ai più piccoli insegna un sagrestano, perché alle persone cattive bisogna portare il dovuto rispetto.

L’intimidito Momentè, stringendo al petto la valigia che era appartenuta al padre, dovrà varcare una grande pozza di liquido nero e oleoso. Sottoponendosi a un battesimo osceno, lambendo la stessa materia di cui sono fatti gli incubi, dopo il quale la sua apparente “normalità” sarà messa a dura prova dal concatenarsi di scoperte terribili. L’ispettore del Ministero di Grazia e Giustizia, al quale saranno recapitate le zanne di una creatura feroce, avrà modo di confessare i suoi precedenti peccati. Rivelando di essere anch’egli un reprobo, al quale è capitato di comprendere come “… nella bellezza assoluta c’è l’ingiustizia del mondo, uno spiraglio, un pertugio, attraverso il quale spiare cosa il mondo avrebbe potuto essere e non è”. Ma di come a quella stessa e già violata bellezza egli chiese vilmente di prostituirsi, pur di salvarlo dai debiti e dalla pubblica umiliazione. In cambio di questa confessione riceverà la certezza di terminare la sua indagine in un luogo e in un tempo dal quale sarà impossibile venir via. Un buio totale e un silenzio eterno, dove sprofondava lo stesso protagonista della Casa dalle finestre che ridono dopo aver perso ogni fiducia nella sola razionalità. Scoprendo le putrescenti verità che si celano sotto ogni chiesa.

Solo perdendo la sua sterile “normalità”, rispondendo anch’egli alle voci portate dal vento, il Momentè otterrà le facoltà necessarie per mettersi alla ricerca dell’inverosimile. Ritrovando ciò che resta di una prova tenuta in gran segreto: un’ostia masticata durante il più sacrilego dei rituali. Giungendo al cospetto di quel Signor Diavolo la cui più grande ed eterna tentazione è quella di farci credere che non esiste. Pupi Avati ci trascina fino al labile confine delle nostre più radicate certezze. Ci costringe a scrutare l’ignoto dallo sconnesso crinale della nostra coscienza, riconducendoci alla vertigine dell’irrisolto quesito già posto da Henry James. Perché non sapremo mai se i bambini, nel loro manipolabile candore, siano talvolta dei mostri. O se i mostri, nella loro ottusa crudeltà, possano essere considerati alla stessa stregua dei bambini. Ad ogni costo innocenti.