L’altro posto
John Ajvide Lindqvist è un grande scrittore tout court, a prescindere dal genere: le sue trame sono sempre affascinanti, ben sviluppate e non si può non empatizzare con le profonde e sofferte psicologie dei personaggi che scolpisce, per quanto assurde possano essere le loro disavventure. Col suo nuovo romanzo, L’altro posto, lo svedese punta ancora più in alto: fondere autobiografia personale (è lui stesso il 19enne che va a vivere da solo pensando d’affermarsi come prestigiatore, squattrinato e in una stamberga col bagno in comune) e storia collettiva (l’omicidio di Olof Palme nel 1986, che narra come accaduto sotto i suoi occhi). Il tutto in un affresco che sarebbe riduttivo definire horror (anche se qualche efferatezza senza mezze misure non manca): si tratta piuttosto di un fantastico weird moderno, onirico e psichedelico per cui non a torto è stato citato il riferimento a W. S. Burroughs. Altro elemento dissimulatamente autobiografico parrebbe l’episodio del bambino maltrattato nella capanna, che ricorda le crudeltà patite dal protagonista di Lasciami entrare.
Ma si tratta di una proiezione del protagonista o di un sogno? Non ne avremo risposte certe, come non sapremo mai da dove cola la gelatina nerastra che s’addensa nella vasca del locale docce e che diventa fulcro del rituale esoterico condiviso da una piccola setta condominiale, per cui non a torto s’è citato anche Polanski (ma quello de L’inquilino del terzo piano più che di Rosemary’s Baby). Nulla di satanico in verità, anzi è proprio questa l’esperienza psichedelica di cui parlavamo: immergendo una mano insanguinata nella misteriosa sostanza i personaggi accedono alla dimensione altra del titolo; è il prato infinito in cui si trovavano i campeggiatori del precedente romanzo (Musica dalla spiaggia del paradiso), per cui si parla di sequel indipendente di quel libro. Finalmente qui capiamo il senso ultimo della celeste prateria: è il luogo in cui ognuno può finalmente essere e vedersi come realmente è, al di là di qualsiasi ruolo sociale e anche di ciò che egli stesso pensa di volere (che, spiega l’anziana condomina Elsa, “quello che crediamo di volere non è quello che vogliamo”).
Il prato dunque è un momento di felicità assoluta quanto caduca, benché il protagonista vi si scopra un “mostro” con tanto di tentacoli; una condizione che lentamente tenterà di tracimare anche nella vita quotidiana del futuro scrittore, che si ritrova amico di un naziskin e fortemente tentato dal gusto della violenza gratuita. Ecco la sottile linea di saldatura fra l’elemento fantastico e quello socio politico: il prato cementa un piccola comunità temporanea, che vi si attacca come a una droga, mentre attorno a sé accetta che si sfaldi il senso di comunità della società svedese complessiva, spezzato nel sangue proprio con l’omicidio di Palme. Troppe acrobazie concettuali, anche per un aspirante prestigiatore? No, L’altro posto è uno dei libri più originali in circolazione e offre molto su cui riflettere, non solo a chi ama il fantastico per non rassegnarsi che la realtà sia lo squallore che vediamo intorno a noi. E se il suo autore ha rinunciato a fare il mago, è perché ha scoperto una magia più potente dell’illusionismo e più duratura delle visioni della mucillagine: la parola narrata, di cui è autentico maestro.
Da leggere ascoltando: i Depeche Mode, in particolare Some Great Reward e la raccolta The Singles 81-85, da cui provengono le canzoni cui s’aggrappa il protagonista nei momenti più cupi.