L’orrore è un luogo tranquillo
Intervista a Davide Montecchi, il regista di In a Lonely Place
In a Lonely Place è un film scoperto per caso all’ultimo TOhorror. Un film meditato e viscerale. Di grande violenza emotiva. Non facile nella forma, il che vuol dire che il suo procedere solenne e sacrale può essere scambiato per lentezza. Il regista riminese Davide Montecchi sta dietro questo film come intelligenza onnicreante, nel senso che lo ha pensato, concepito, sceneggiato, diretto e montato nonché prodotto con la Meclimone Produzioni cinematografiche, della cui compagine fa parte Elisa Giardini, compagna di Montecchi e cosceneggiatrice di In a Lonely Place. Il film si sta facendo conoscere grazie a proiezioni in tutta Italia. E il consenso aumenta. Montecchi, però, guarda anche all’estero: «Ho rifiutato una distribuzione americana – dice – perché mi volevano cambiare il titolo. E allora, un po’ con la gelosia del padre, ho detto no. Non abbiamo comunque perso l’occasione della vita, perché si trattava di una distribuzione modesta». In a Lonely Place si basa su un assunto molto semplice: un uomo e una donna, chiusi in un grande albergo deserto. Ma quella apparente semplicità e linearità, di linee, di forme e di essenza, si va progressivamente complicando. Partiamo ab ovo, cioè da dove è cominciato tutto. E come e perché: «Volevo da sempre fare un film. Non sapevo quale, ma fin da quando avevo 12 anni, forse anche prima, avevo questo desiderio o impulso. Ho instradato la mia vita per cercare di fare questo, il prima possibile, con i miei mezzi. Essendo nato in provincia, non a Roma né a Milano, non avevo contatti, nulla. Però ho cercato fin da ragazzino di corroborare il versante tecnico, per permettermi di fare da solo, di rendermi il più autonomo possibile. Ho lavorato sempre in ambito video fino al 2012, quando, insieme a un’amica, Lorenza Ghinelli, anche lei di Rimini, avevamo deciso di fare un film tratto da un suo romanzo. Lei era una scrittrice di horror, adesso si è data a un altro genere, ma faceva horror; e aveva scritto un libro che si intitolava Il divoratore: un buon successo, aveva venduto molto.
Lorenza aveva visto dei miei cortometraggi e aveva piacere che facessi la regia di un film tratto dal suo libro. Peccando di ingenuità, ci siamo messi, quindi, a scrivere una sceneggiatura, pensando che fosse fattibile, sfruttando il fatto che lei er un nome abbastanza noto. Ovviamente, non ci ha calcolato nessuno, perché il film aveva un preventivo enorme ed era molto più complesso rispetto a quello che poi ho fatto. Ma in corso d’opera… io avevo comunque fondato la casa di produzione, avevo coinvolto delle persone: quando ho visto che l’altro progetto non si poteva più fare, ho tirato fuori dal cassetto questa cosa che avevo scritto anni prima, riadattandola un po’. E siamo partiti a farlo…». Racconta, Montecchi, che Il divoratore era una trama horror classica, piuttosto vicina a It di Stephen King con dei ragazzini protagonisti. Era ambientato anche quello a Rimini. «C’era la storia di uno strano vecchio che usciva da un dipinto: era un horror sovrannaturale. L’elemento era molto marcato. Non l’ho mai accantonata del tutto come idea, ho sempre nella testa che bisognerebbe provarci a farlo, ma essendo un progettone… parliamo di svariati milioni di euro, con tantissimi attori, tante location, tanti effetti. Anche solo i diritti del libro, per partire, costavano una cifra: ci avrei fatto due film! In a Lonely Place me lo sono auto-prodotto, sfruttando un anno di lavoro meraviglioso, il 2012, in cui ho, per mia fortuna, incassato tantissimo lavorando il giusto, e ho investito i guadagni nel film. Anche se parliamo di cifre modestissime, rispetto a quelli che sono gli standard produttivi. Circa 40mila euro».
Definiamo una parola d’ordine di In a Lonely Place, l’hashtag che ricomprenda il nucleo essenziale della storia: la ricerca della verità: « In a Lonely Place è nato dalle mie ossessioni. Molti degli aspetti – non tutti, per fortuna – del personaggio di Thomas sono modulati su altrettanti aspetti della mia personalità. E quindi non ho fatto altro che prendere quello che io già sono e l’ho messo in scena. La verità. Sì, quella è la mia ossessione. La ricerca della verità, a livello di rapporti relazionali uomo-donna, e anche in un senso più ampio, filosofico». Si parla di gnosi, nel film. In un modo non incidentale o cursorio. Vengono citati gli Arconti. Si capisce che Montecchi mastica di questi temi ricercati e arcani, a contrasto con tutto ciò che di terrestre e di crudamente materico vi è nella storia: « Quello è un altro aspetto mio che ho appiccicato al personaggio maschile. Nel senso che la gnosi è connessa con la ricerca della verità. E la gnosi presuppone una verità che prima di tutto deve essere cercata dentro di sé. Il personaggio di Thomas è una specie di gnostico. Jung aveva fatto una interessante rilettura della Gnosi non come sistema religioso ma come conoscenza del sé, per cui ogni Arconte era associato a un vizio o a una caratteristica caratteriale sgradevole. Mi sembrava interessante creare un bel mistero intorno a questa figura, che potesse dargli uno scatto in più. Mio padre è psichiatra e psicoanalista, quindi arrivo da una cultura di questo tipo e parte dei miei interessi si sono naturalmente rivolti in questa direzione».
In a Lonely Place è un film in cui la forma è già contenuto. La forma che ti salta subito negli occhi, ti irretisce e ipnotizza. Quei movimenti di macchina, l’esplorazione angosciante, satura di attese, dello spazio: «Il problema della forma. Ho fatto una tesi di laurea che si intitolava In nome della forma, e sono dell’idea che il cinema sia forma e dalla forma poi si passa al contenuto. Che poi, diciamolo, la forma include anche l’essere sporco. Cannibal Holocaust è forma pura. La mia forma personale è quella di In a Lonely Place, un po’ museale, statica, fissa. Sui movimenti della macchina da presa vorrei dire che c’è stata una profonda riflessione dietro, che sono andato in controtendenza, come tu dici, ma in realtà questo non è stato cosciente, nel senso che è stata una decisione di sensazione. Nella mia testa lo vedevo così e quello era il modo per far provare quel tipo di emozioni che sentivo io nel momento in cui ho scritto tutto il trattamento. Quindi è stata una questione più di connessione che di riflessione razionale». Il film ha come ambiente un mastodontico albergo abbandonato, il terzo grande personaggio della storia insieme a un fotografo e alla sua modella che si trovano là dentro per uno shooting: «Devo richiamarmi a Fellini, quando diceva che si ritrovava in certe situazioni in maniera automatica. L’interno dell’hotel non corrisponde all’esterno, nel senso che l’esterno è un ex seminario presso Padova, mentre l’interno è un albergo abbandonato che c’è qui a Rimini. Questo hotel è stato edificato da un amico di mio nonno. Uno di quei posti che fin da bambino io sento nei racconti della mia famiglia: una specie di età dell’oro: “Ti ricordi, quando stavamo all’Hotel Coronado?”. Non lo avevo mai visto fino a dieci anni fa, quando un giorno mi viene il matto: “Fammi andare a mangiare all’hotel Coronado”. Vidi quel salone che era esattamente così come l’ho messo nel film. E lì mi scattò l’impulso di girarci. Ma dirò anche di più: la sceneggiatura è stata in parte scritta su quell’ambiente».
Anche se è impossibile spiegare la nascita di qualsiasi film, la domanda va fatta, sull’origine del plot: «La sceneggiatura era inizialmente un insieme di immagini, partiva dall’animale e c’era poi l’immagine di questo tizio che chiedeva con ossessione alla ragazza: “Chi sei tu, chi sei tu? Devi dirmi la verità!”. Dopodiché, quando mi sono trovato nella situazione per cui, da lì a tre mesi, avrei dovuto scrivere e fare il film, sono stato costretto a mettere insieme una serie di elementi che avevo in testa sparsi». Montecchi parla dell’animale, e allude al coniglietto bianco che si vede sul manifesto. Da qui in avanti si entra negli spoiler, per cui chi non voglia sapere è avvisato e si fermi. L’animale, dunque. Cioè la pratica aberrante e agghiacciante del crush o crushing: «Questa cosa parte da una ricerca mia. Perché, per tenersi aggiornati, ogni tanto su youporn bisogna andare: il porno è una fonte inesauribile di immaginario. Così mi sono imbattuto in questi video in cui dei piccoli animali vengono schiacciati da piedi femminili. Una cosa orrenda, che non avrei immaginato potesse esistere. Avevo già l’idea di qualcuno che era talmente ossessionato da una ragazza che voleva sapere tutto di lei, poi ho trovato questa faccenda del crush e ho deciso di metterle insieme».
Parliamo degli attori. Una variabile dal peso essenziale in un film come questo dove on stage per 90 minuti ci sono solo due personaggi: il lui, Luigi Busignani, e la lei, Lucrezia Frenquellucci: «Busignani ha un viso incredibile, funziona. L’ho conosciuto quando stavamo facendo un casting per il progetto del Divoratore, mi aveva colpito per la sua professionalità e per il suo aspetto, quindi l’ho pensato per il ruolo di Thomas. Lucrezia Frenquellucci la conoscevo bene, ci avevo lavorato, è brava. Il rapporto tra me e lei è quasi lo stesso che intercorre nel film tra i due personaggi. Lucrezia è un po’ la mia Musa: per lei ho pensato e creato diverse cose». In a Lonely Place ha comportato un mese e mezzo di riprese, a partire dall’ottobre del 2014, cui ha fatto seguito una lunga post-produzione, fino al gennaio del 2016. «Sì, la post mi ha preso molto tempo perché ho dovuto fare tutto io, che mi sono poi occupato anche di montare il film. Diciamo che ho la responsabilità totale sul risultato finale. Ora a distanza di tempo, posso dire di esserne soddisfatto. Meglio di quello che pensavo. È stato un progetto la cui ambizione è cresciuta nel corso del tempo. Per disinnescare un po’ l’ansia, a un certo punto stavo addirittura pensando di farne una cosa alla Guinea Pig. Mi dicevo: “Tu non ti preoccupare, arriva sul set, fai una cazzata qualsiasi…”. Poi, però, vai sul set, provi le luci, metti l’obiettivo giusto, il direttore della fotografia ti fa vedere una cosa e tu dici: “Cazzo, così è figo…”. E quindi in questo modo, pian piano, il film è cresciuto».
Montecchi, parallellamente alla distribuzione di In a Lonely Place, sta lavorando a un secondo lungometraggio, di cui ha già scritto la sceneggiatura: una “strana unione” in cui si incrociano il Faust di Goethe e Il sorpasso di Dino Risi: «Ambientato in un night club, descrive il rapporto tra due personaggi, uno dei quali timido, complessatino, impacciato con le donne, e l’altro invece istrionico che alla fine però si rivela un pazzo squilibrato che dice di avere stretto un patto con il Diavolo e vuole convincere anche l’altro a lasciarsi andare in un gorgo di perversione, di violenza. Ho finito la sceneggiatura e sono nella fase, noiosissima, burocratica della richiesta fondi al Ministero e alla Regione. Gli attori ancora non mi sono messo a cercarli, anche se ho bene in mente la fisionomia di tutti. Tranne il personaggio femminile, che sarà Natasha Legeyda. Ecco, lei ce l’ho ben chiara, gli altri due devo ancora sceglierli».