L’ospite è come il pesce…
Ricordate gli extraterrestri megacefali di Mars Attacks!, che bombardavano la Terra mandando in loop la registrazione “veniamo in pace”? Non proprio la forma di invasione aliena più subdola che il cinema ci abbia mostrato. In effetti, non c’è Independence Day che tenga: il terrore dallo spazio terrorizza di più quando si insinua nella razza umana con striscianti abilità mimetiche. Corpi abitati da altre forme di vita, il più delle volte giunti davvero “in pace” e con le migliori intenzioni: portare ordine in questo pianetucolo. Bonificarci, prendendo il nostro posto. Radicale ma efficace, come l’operazione delle Anime, gli extraterrestri creati dalla mamma di Twilight Stephenie Meyer per L’ospite, bestseller che arriva sul grande schermo rivisto dalla penna e dalla macchina da presa di Andrew Niccol in The Host. Le Anime non sono bellicose, non sanno provare odio o amore. Hanno solo una debolezza: non dispongono di un corpo, e per vivere sulla Terra devono prendersi i nostri. Che, uno a uno, vengono “occupati” e sostituiti da esseri più vicini alla perfezione. È un classico: sono intorno a noi, sembrano come noi, eppure… non sono esattamente le persone che conoscevamo.
BACELLONI & AFFINI
Come già sviscerato da Marcella Leonardi nel dossier del n. 126, il tema intramontabile dei body snatchers ha vissuto plurime stagioni di giovinezza e attecchisce abilmente alle paranoie di ogni epoca, alla paura di numerose specie di Altro, attraversando il grande schermo dallo spauracchio della Guerra Fredda, fino al terrore virale del contagio. Prima ancora del capostipite di Siegel, il classico del 1953 Gli invasori spaziali (Invaders from Mars, 1953, William Cameron Menzies) metteva al centro della narrazione un bimbo che, dopo aver visto atterrare un UFO, si ritrova con due gelidi sconosciuti come genitori. Non va molto meglio quando cerca di rivolgersi alla polizia e ad autorità varie, tutti sistematicamente inghiottiti da un buco nella sabbia e risputati fuori con occhio vitreo e volontà aliena.
Tecnologicamente avanzati nelle premesse (la “sostituzione” avviene tramite l’inserimento di una sorta di microchip alla base del collo), i marziani si rivelano essere energumeni in tuta di ciniglia verde, presto assediati da un americanissimo spiegamento di carri armati. Il cult di Siegel, L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatcher), arriverà tre anni dopo, con il suo carico di paranoia e quel finale posticcio che Siegel non avrebbe voluto; a vendicarlo, nel 1978, ci penserà il terrificante grido di Donald Sutherland nel finale di Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatcher, Philip Kaufman), solo il primo di una serie di emuli, rifacimenti e sequel sul tema dei semi spaziali che, sospinti dal vento siderale, atterrano sul nostro pianeta per rimpiazzarci con obbedienti copie vegetali. Tra le versioni più note, Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, 1993) di Abel Ferrara e Invasion di Oliver Hirschbiegel (The Invasion, 2007), dove l’invasione è privata del suo lato carnale per mutarsi in incorporeo virus e terrore del contagio; nel 1986 è Tobe Hooper a firmare Invaders, remake di Gli invasori spaziali; in zona plagio Alla radice del male (Seed People, 1992, Peter Manoogian), dove i semi extraterrestri con sembianze umane, se stuzzicati, rivelano il loro aspetto di enormi critters vegetali (e vengono combattuti da una copia spudorata di Doc di Ritorno al futuro!).
TERRORI DALLO SPAZIO PROFONDO
Chi più di tutti ha sfruttato le potenzialità horror del tema dell’alieno fra noi (o dentro di noi) è sicuramente John Carpenter. Nel 1982 il suo La cosa (The Thing) aggiorna l’originale di Howard Hawks trasformandolo in un gioco al massacro dove l’alieno, assumendo la forma di qualsiasi creatura, fa dilagare il contagio e con esso il sospetto nella base antartica dove è stato risvegliato. Una caccia all’intruso in ambiente ostile, dove il nemico ha il volto di chi si conosce e si manifesta come mostro dalle sembianze lovecraftiane solo quando è troppo tardi. Sei anni dopo Carpenter sforna l’incubo di Essi vivono (They Live), geniale distopia in cui gli extraterrestri ci hanno conquistato da un bel po’, hanno piazzato un ripetitore che trasmette segnali per tenerci buoni e hanno occupato tutte le posizioni di potere e prestigio, riducendo l’umanità a una massa di straccioni in preda alle fandonie della tv.
Tra action e horror, in zona caccia al (non)uomo, si muove anche L’alieno di Jack Sholder (The Hidden, 1987), con il lynchano Kyle MacLachlan nei panni di stralunato E.T. in incognito sulla Terra per catturare un viscidissimo alieno che s’infila in uomini e donne e manifesta una passione sfrenata per le Ferrari. Ribalta la prospettiva Impostor di Gary Fleder (id., 2001), dove l’onesto Gary Sinise viene accusato di essere il guscio umano per un artefatto di Alfa Centauri, e passa buona parte del film a tentare di scagionarsi. Il sospetto strisciante è al centro anche del pessimo La moglie dell’astronauta (The Astronaut’s Wife, 1999, Rand Ravich) un Rosemary’s Baby in salsa sci-fi: Charlize Theron ci mette decisamente troppo a comprendere che il maritino Johnny Depp non è più lui da quando è rientrato dallo spazio, e che il suo scopo era impiantarle un paio di gemellini. Lo stesso impulso d’inseminazione muove le creature della saga di Specie mortale: nel secondo capitolo, che abbonda di momenti splatter, l’astronauta posseduto si dedica al sistematico ingravidamento di ogni donna gli capiti a tiro, poi sventrata dalla nascita di una nidiata di bimbi. La caccia all’alieno diventa una faccenda complessa in Sono il numero quattro (I Am Number Four, 2010, D.J. Caruso), perché i ragazzi spaziali, spediti sulla Terra per salvarsi dall’invasione di una razza perfida, vanno uccisi in rigoroso ordine numerico crescente.
ALTRE FORME D’AMORE
Il meccanismo oliato e asettico delle Anime di The Host s’inceppa quando la combattiva Melanie (Saoirse Ronan) viene “abitata” da un’Anima chiamata Viandante e oppone resistenza alla sottomissione, facendo del suo corpo un luogo molto affollato e creando confusione nella sua comunità, e in particolare nel suo fidanzato. Com’era lecito aspettarsi dalla vecchia volpe Meyer, The Host infatti è anche (e soprattutto) una storia d’amore adolescenziale, dove Melanie continua ad amare ed essere amata pur relegata nel suo angolo di resistenza psichica, mentre l’aliena Viandante scopre la bellezza dei cari vecchi sentimenti. Può funzionare l’amore interrazziale, pardon, intergalattico?
Al cinema sì: variante fantascientifica del tema dello sconosciuto nel proprio letto, l’unione tra umano e alieno sotto mentite spoglie si presta al dramma come alla farsa. D’altro canto, come già detto, l’accoppiamento è tra gli obiettivi di molti degli invasori cinematografici: che si tratti di impiantare embrioni o semplicemente di rimorchiare, quando gli E.T. si ritrovano ad assumere sembianze terrestri hanno spesso in mente una cosa sola. Tra i primi casi di passione umano/aliena c’è Ho sposato un mostro venuto dallo spazio (I Married a Monster from Outer Space, 1958, Gene Fowler Jr.), dove a essere rimpiazzati dai marziani sono i novelli sposi. Mentre gli scapoli, sempre in minor numero, si ritrovano al bar a bere per i compagni caduti nella trappola del matrimonio, le casalinghe disperate si chiedono come mai l’uomo che hanno sposato non è quello di cui si erano innamorate. Gli invasori hanno terminato le femmine della loro specie, e cercano di procacciarsele sulla Terra, ma il fattore imprevisto è l’amore, che può far palpitare a ritmi terrestri perfino un mostro dotato di pistola fumogena… Parte più avvantaggiata la creatura che in Starman ancora di John Carpenter (id.,1984), prende le sembianze di un fascinoso Jeff Bridges, marito defunto che rinasce sotto gli occhi esterrefatti di Karen Allen. Alieno buono, rapitore per caso, lo Starman è una via di mezzo tra Forrest Gump e il robottino di Corto circuito: sa riportare in vita i morti ma non comprende l’utilizzo sociale del dito medio alzato; canta New York New York ma come E.T. vorrebbe solo tornare a casa. Non solo le donne, però, cadono vittime del fascino spaziale: in Ho sposato un’aliena di Richard Benjamin (My Stepmother Is an Alien, 1988) i ruoli si invertono ed è il vedovo Dan Aykroyd a innamorarsi dell’extraterrestre Kim Basinger.
Lei è in missione segreta per capire se la Terra stia cercando di attaccare il suo pianeta; lui è uno scienziato la cui mente analitica è offuscata dalla passione, quindi tende a soprassedere di fronte alle sue bizzarre abitudini, come masticare i filtri delle sigarette e leggere libri interi infilandoci dentro una mano. Declinato nella forma commedia romantica, il filone dell’infiltrazione aliena perde i contorni di minaccia incombente e prende quelli di consolatorio incontro/scontro di culture, dove la Terra è decisamente più dedita a piaceri della carne e al divertimento. Lo Starman di Carpenter e la Celeste di Benjamin condividono la sindrome di Stoccolma verso il pianeta che credevano ostile: scoprono le gioie del buon cibo, della musica, del sesso, perfino il brivido di starnutire, assenti sui loro mondi di provenienza.
Anche Ron Howard si butta sul filone degli alieni pacifici con Cocoon – L’energia dell’universo (id., 1985, seguito da Cocoon – Il ritorno – Cocoon: The Return – nel 1988), dove i marziani si mescolano agli umani solo per recuperare dei giganteschi ovuli dai poteri rigeneranti. Anche qui ci scappa la love story interplanetaria, con tanto di scena di sesso alieno in piscina tra Steve Guttenberg e la bella E.T. Tahnee Welch. Sono parenti stretti dello Starman, ma più variopinti e dediti al cazzeggio, anche i tre pelosi alieni che precipitano nella piscina di Geena Davis nel cult di Julien Temple Le ragazze della Terra sono facili (Earth Girls Are Easy, 1988). Il trio di peluche marziani, ovvero i giovanissimi Jeff Goldblum, Jim Carrey e Damon Wayans, non ha malevole intenzioni di mimetizzarsi per conquistarci, anzi: sono le ragazze a rifargli i connotati al salone di bellezza, depilandoli per umanizzarli, solo per scoprire che “i capezzoli sono universali”. Curiosamente non sono altrettanto entusiasti della cucina terrestre gli adolescenti marziani della serie Tv Roswell (1999–2002), riuscito esperimento di ibridazione tra sci-fi e teen drama, che sfrutta il legame inesauribile tra i turbamenti della pubertà e la tematica di genere della mutazione corporea. I giovani alieni che frequentano la tavola calda di Roswell (e che per soddisfare le papille gustative extraterrestri devono ricoprire di tabasco l’insipido cibo umano), in fondo, non sono che adolescenti qualsiasi. Con le normali vicissitudini di amori e disamori, fino al sospirato matrimonio intergalattico.
TV ALIENATA
Anche sul piccolo schermo le invasioni di sostituti proliferano, a partire dai più spietati e famosi di tutti: i Visitors, negli anni 80 entrati nell’immaginario collettivo come contraltare spietato del tenero E.T. I Visitatori, scesi sul pianeta con un’aria amichevole non meno minacciosa di quella dei marziani burtoniani citati in apertura, dietro le divise rosso fiammante e la pelle sintetica nascondono squame e indole da rettili. X-Files, in quasi dieci anni, ha proposto creature e complotti alieni di ogni tipo, e anche un buon numero di “possessioni”, tra cui vale la pena citare il mitico personaggio ricorrente di Alex Krycek, sostanzialmente immortale e più di una volta abitato da entità extraterrestri. Nel 1996, sulla scia di quella serie cult, fa capolino Dark Skies (con pilot diretto da Tobe Hooper), che come e più di X-Files teorizza il coinvolgimento alieno in fatti cruciali della storia statunitense (sarebbero stati abitati dagli extraterrestri perfino gli assassini di Kennedy).
Parallelamente all’interesse riscoperto sul grande schermo, anche la tv in tempi recenti ha riproposto gli alieni camuffati: Invasion, una sola stagione nel 2005, è una variazione sul tema body snatchers con creature acquatiche pronte a impossessarsi di corpi umani; The Event, nata nel 2010, rispolvera teorie del complotto con un gruppo di extraterrestri “dormienti” che avrebbero contribuito allo sviluppo della tecnologia umana per poi servirsene.
L’INVASIONE DEL CITAZIONISMO
Con Men in Black (id,1997) Barry Sonnenfeld ha aperto la via dell’invasione aliena postmoderna: citazioni e ironia a piene mani, per un’infiltrazione extraterrestre che scopriamo essere più radicata di quanto avessimo mai creduto. Nei tre capitoli della saga di commedia sci-fi si è scoperto che sono alieni in incognito una quantità di celebrità: da Sylvester Stallone a Steven Spielberg, da Elvis («è solo tornato a casa») all’intera Factory di Andy Warhol, da Michael Jackson a Oprah. Citazionismo nel citazionismo, nello spassoso teen horror The Faculty di Robert Rodriguez (id, 1998) gli adolescenti protagonisti non possono che menzionare, oltre che L’invasione degli ultracorpi, anche lo stesso Men in Black quando la loro scuola viene invasa da creature assetate che prendono possesso del corpo docente. Gli “alieni” dell’istituto, ovvero gli emarginati, sono chiamati a combattere contro i veri extraterrestri, e quando il sospetto del contagio dilaga, l’unico modo per provare di essere umani è sniffare una dose di droga fatta in casa. Riprende l’ambientazione studentesca anche il derivativo Decoys (id, 2004, Matthew Hastings), dove un gruppo di biondine mozzafiato seduce ragazzotti sfigati per sfoderare i tentacoli solo arrivati al dunque. Ovviamente, con un seguito: Decoys 2 – Seduzione aliena, perché l’invasione degli ultrasequel non finisce mai.