Marco: la storia vera del finto ebreo deportato

Il film Marco, the Invented Truth presentato a Venezia. Recensione e intervista ai registi Aitor Arregi e Jon Garaño
Featured Image

Quando si argomenta la tematica dello sterminio nei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale e della seconda guerra mondiale tout court, la Spagna viene citata poco. Retta dal 1939 dal dittatore Francisco Franco in seguito alla guerra civile spagnola (da alcuni storici considerata una sorta di “prova generale” alla guerra mondiale), la Spagna si dichiara uno stato simpatizzante dell’asse, inviando volontari al fronte a supporto di Hitler, ma diventa poi neutrale nel 1940. La dittatura di Franco durerà poi fino al 1975, quando delle dittature europee si stava oramai parlando già in termini storici. Io personalmente rimango sempre basita nel pensare che i nostri cugini spagnoli abbiano vissuto tale calvario fino agli anni settanta, senza che i venti di libertà ideologica e politica di tutte le potenze europee e democratiche riuscissero ad arrivare fino alla penisola iberica. E personalmente rimango anche scossa dal fatto che ci sia stata una sorta di indifferenza politica da parte di tutta l’Europa che non è intervenuta a gamba tesa sul franchismo.
Marco, the Invented Truth, film presentato nella sezione Orizzonti a Venezia 81, invece, rivela un lato della memoria storica spagnola legata alle deportazioni, ai campi e alla guerra che davvero incuriosisce e stupisce. Diretto a quattro mani dai registi Aitor Arregi e Jon Garaño, il film narra della curiosissima e vera vicenda del sedicente Eric Marco (interpretato da un ottimo e convincente Eduard Fernández). Marco si finse per anni un deportato spagnolo al campo di Flossenbürg dove vennero internati 143 cittadini spagnoli. Una volta liberato il campo dagli americani nell’aprile del 1945, a differenza di molti altri stati europei, finalmente liberi dal giogo nazista e felici di celebrare, attraverso il ritorno in patria dei prigionieri, anche la fine dell’incubo nazista, la Spagna di Franco decide invece, innanzitutto di non reclamarli, ma nemmeno di valorizzare la loro storia e sofferenza per poi ignorarli completamente. Personaggio sardonico, narcisista, egocentrico con notevolissime capacità oratorie e retoriche, un’eloquenza spiccata e una cocciutaggine quasi ammirevole, egli diventa il presidente dell’associazione dei deportati spagnoli. Si spiana la strada per anni facendosi invitare a conferenze sul tema, proponendo incontri con studenti e storici. Si reca anche al campo tedesco presso l’associazione tedesca che gestisce la burocrazia del campo del comune tedesco di Flossenbürg per richiedere il certificato ufficiale della permanenza, ma non riesce ad ottenerlo perché, chiaramente, non ci sono prove concrete della sua persona nel campo. Allora si impossessa dell’identità di un detenuto spagnolo scomparso che ha il nome e cognome simile. Con una sfrontatezza e un sospetto oramai evidente alla moglie (Nathalie Poza) – che in modo curiosamente vigliacco ma anche sensibilmente commovente, decide di voler non sapere – egli contraffà documenti ufficiali e insiste nel raccontare la sua storia. Verrà poi inchiodato dallo storico, ricercatore universitario Benito Bermejo nel 2005, pochi giorni prima della commemorazione ufficiale dei deportati spagnoli, di cui lui è per altro direttore da anni, al campo di Mauthausen; campo che imprigionò molti militanti repubblicani spagnoli fuggiti dalla Spagna di Franco e catturati in Francia nel 1940. Primo riconoscimento ufficiale del governo spagnolo alla presenza dell’allora presidente Zapatero. Evento che di fatto ha fatto accadere lui, non solo artefice ma anche portavoce. Messo al muro, si confessa ai compagni, alla famiglia e all’opinione pubblica, che si sentono di condannarlo inizialmente in maniera feroce e si palesano chiaramente e drammaticamente sconcertati, per poi in qualche modo perdonarlo, come lo farà la figlia in seguito, perché, in fondo, non ha fatto niente di Male (quel male con la M maiuscola, che invece i nazisti rappresentavano effettivamente). I registi stessi, che ci hanno incontrato al Lido, confessano empaticamente che alla veneranda età di ottant’anni, dopo una disfatta e figuraccia simile, si sarebbero rinchiusi in casa in silente e umile attesa dell’ora finale. Invece no! Cosa fa Marco … personaggio davvero cinematografico, nel senso quasi filosofico del termine, insiste. Vuole essere ascoltato, perché, anche se non è stato un deportato, ha sofferto le pene della guerra nazista. È stato imprigionato a Kiel assieme ad altri lavoratori spagnoli mandati da Franco in sostegno di manodopera operaia in Germania. Come tanti, ha sofferto e visto la guerra; quindi sostiene, in maniera quasi comicamente delirante, di aver mentito, solo parzialmente e che le sue lotte testarde, coerenti, durature, appassionanti a sostegno delle vittime sono servite (come in effetti lo sono state) a sollevare il problema dell’indifferenza politica che la Spagna ha avuto nei confronti di queste vittime. Il personaggio e il film in particolare funzionano su tantissimi livelli argomentativi e simbolici.

La fine del secondo conflitto ha visto non pochi cambi di identità. Molti criminali nazisti si sono nascosti per anni reinventandosi personalità di pirandelliana memoria. Si è fantasticato in termini di fantastoria, sull’identità di molti criminali di guerra ed è storicamente comprovato che molti si sono salvati cambiando identità. È molto interessante che Marco, in maniera quasi diametralmente opposta, si nasconda invece per fare del bene, e quasi deluso di non aver partecipato anche lui a quel dolore. Il problema dell’identità (ideologica soprattutto) ha creato una psicosi di massa e di personalità stupefacente nelle dinamiche identificative del popolo mondiale dopo la fine della guerra. In film come The Believer di Bean o la serie Hunters (con un mastodontico Al Pacino) vedono i protagonisti vivere di una schizofrenia identificativa decisamente patologica che fa intendere quanto quel conflitto devastante abbia cambiato la razza umana a livelli di subconscio identificativo e identificabile. La nascita del vero uomo moderno, che non muore più di fame e di stenti, ma perisce per mano propria di psicopatie neuropatologiche, diviso tra la sua immagine reale e la maschera che porta sullo schermo (sic!), appunto. La domanda che abbiamo fatto ai due registi riguarda tutti questi strati intrepretativi della vicenda e della messa in scena proprio del film, del rapporto fraudolento con lo stesso Marco (che prima gli promette una collaborazione e poi segretamente fa accordi con altri produttori… davvero geniale), e del loro aver vissuto da spagnoli questa vicenda. Perché c’è moltissimo della natura psicologica della nazione spagnola anche nel tentativo di voler partecipare in maniera equipollente a un conflitto che di fatto la Spagna non ha vissuto. Come Marco, la Spagna ha sofferto di altre e forse peggiori e più longeve atrocità dittatoriali, ma non di quella sofferenza così mediaticamente e cinematograficamente rappresentabile e rappresentata che hanno avuto le vittime “super star” dell’Olocausto e dei campi di concentramento. “Abbiamo iniziato a lavorare al progetto 19 anni fa. Poi ci siamo fermati e tenuto in sospeso proprio a causa di queste controversie e “turlupinaggini” (dall’attore di farse appunto, Turlupin, n.d.r) di Marco. Doveva essere un documentario inizialmente, ma poi abbiamo deciso di farne un lungo di finzione. E volutamente abbiamo montato diegeticamente il primo ciak del film come ad introdurre la messa in scena della vicenda stessa di Marco. Quando poi viene smascherato, in termini di linguaggio cinematografico, abbiamo concluso la sequenza del monologo di confessione, con la caduta della macchina da presa; movimento di macchina che conclude la sequenza, appunto, come a significare che lo spettacolo fraudolento è finito; un sipario che, cinematograficamente, abbiamo espresso con la caduta della camera.” I due registi lavorano insieme da anni e sono davvero curiosa di ripescare i loro film precedenti che non ho visto. “In realtà”, ci spiegano “siamo in tre (c’è anche Jose Mari Goenaga. che fa parte della produzione Moriarti). A differenza di tanti autori che lavorano insieme, come i Cohen e i Quay, noi non abbiamo delle aree di interesse prefissate, ma, a seconda del progetto e della natura della produzione, decidiamo come dividerci il lavoro, tra sceneggiatura, produzione e regia. Una sorta di Factory alla Warhol/Morrisey”. Insomma, cari nocturniani, davvero una bella scoperta. Il film è stato acquistato fortunatamente dalla Movies Inspired, che lo distribuirà in Italia in data da decidere. Speriamo che la critica ufficiale non si finga miope davanti al film e che possa avere il riconoscimento che si merita.