Mater Lacrimarum – Cattiva maestra televisione
L’anomala striscia di eveline, a cura di Ciro Giorgini
Le facce della morte sul terzo canale nazionale: shock e scandalo, in una spericolata sperimentazione che non ebbe eguale in tv…
Sarebbe vincere facile rimasticare a man bassa Baudrillard, Debord o Ghezzi sul cieco potere indiscriminato dell’occhio catodico che tutto fagocita e tutto rivomita rendendo tutto uguale a tutto; quell’occhio e quel tutto che crediamo di guardare e dal quale siamo invece osservati, ipnotizzati e sommersi. Qualsiasi teoria avversativa o perorazione situazionista non può più nulla contro il flusso di immagini e dati che continua a essere macinato dalle fauci di un gargantua tritatutto capace di metabolizzare tutto quanto è trasmissibile, ivi incluso lo stesso contestatorio operato di Debord o Blob (che dalla primeva carica eversiva ha finito col trovarsi in una posizione di scacco matto). Mai come nel caso televisivo l’essere contro o anti sancisce una devozione a rovescio. Forse la sola forma di contrasto o di video-terrorismo possibile è rinunciare globalmente all’antenna per vedere assieme a Kaczynski l’effetto che fa. Ma per uno che eroicamente riesce a essere conseguente a un’avulsione simile, migliaia di schermi LCD 50’’ e di digitali terrestri vengono venduti proprio mentre scrivo e mentre leggete.
Se in una traiettoria che da Le sang des betes a Le Cilaire e sottoinsiemi il cinema ha saputo essere literaliter la morte al lavoro secondo i dettami di Stachanov, possiamo però dire che l’apparato mediatico (televisivo prima, telematico poi) è stato un planetario ufficio di collocamento per la spettacolarizzazione della morte, o quanto meno per il suo apprendistato. Anodo e catodo sindacati del thanatos. Il tele-calvario di Alfredo Rampi ha per primo reso a un tempo dimostrativi e manifestativi i criteri base degli snuff: è la richiesta a fare il prodotto, non c’è iato tra ciò che guardiamo e ciò che siamo. Va a questo punto da sé che il diaframma tra informare e desensibilizzare non raggiunge lo spessore millimetrico. Quella di Rampi sarà solo la prima tessera di un domino a base di corti-circuiti necroscopici atti a convalidare la cioraniana tesi dell’incidente (che sarà vedi caso proemica per lo shockumentary True gore): cosa spinse i dirigenti Rai a non interrompere fino all’ultimo minuto la diretta di una ben poco amichevole Juventus-Liverpool trasformatasi in vera e propria strage? Non c’era telespettatore che esultasse più per i goal segnati, annichilito (ma diciamola tutta: pure ipnotizzato) com’era dall’escalation ferale ospitata all’Heysel. Delocandosi da campo a tribuna, e da tribuna a comodi salotti familiari, la partita si giocava tra theoria spettatoriale ed esponenziale conteggio dei morti, ed era fatta di fuorigioco impuniti, senza arbitro che li ammonisse, come del resto non venne ignominiosamente interrotta una partita che funse da casus belli tra le tifoserie, occasione mediatica troppo ghiotta per i dati auditel e le colonne della cronaca avvoltoia, malgrado le costernate disapprovazioni dei telecronisti assurte a stasimo. Col fuoricampo, ovviamente, primo escluso, o scaltramente tenuto da conto solo quando ormai la frittata era fatta. Una palla al balzo letteralmente presa. Non si può dire “culo” in televisione, perché la metaforizza/denuda con troppa perfezione, ma le è permesso propinare merda vestita da crocerossina, siringarla, usarla per le dialisi, proporsi dittatorialmente come il contrario dell’amore, dell’intelligenza o del bello, come epopea dell’oscenità ontologica-antologica.
Epopea entro la quale ha suo malgrado fatto balordi capitomboli anche la controcultura più super partes: oltre a Schegge, Blob e Cinico tv, la felicemente anarcoide Rai Tre di Guglielmi diede ospitalità a un’altra anomala striscia chiamata eveline, curata dall’eroico Ciro Giorgini. In buona sostanza un bric-a-brac delle veline non ancora passate per le manipolazioni e le censure dei doveri di cronaca, dei rushes freschi di arrivo in redazione, concatenati tra loro senza alcun criterio tematico o teorico. Lontana da ogni compiacimento per quanto mostrato, la striscia ha da una parte una sua cruda natura/risonanza da mondo-movie atarassico, scevro da didascalismi, retorica, ipocrite tirate d’orecchi e patetismi spiccioli celanti sadismo, dall’altra è una mesmerizzante sorta di geo-blob di un disastro che si prende cura di tutto e di tutti, che – non dissimilmente da quanto ora è in grado di fare internet – porta e immerge ovunque in un battito di palpebra. La pre-natalità rispetto alla strumentalizzazione mass-mediatica ne faceva un oggetto curioso, singolare, molto forte, sfuggente al sospetto di quel condiscendente cripto-sadismo così tipico dei telegiornali, cui tutto un genere da Jacopetti in poi ha firmato volentieri le più salate cambiali. In tutto spregio a ogni censura, e di ogni falsificazione, eveline fondava un discorso sulla comprensibilità di-per-sé delle immagini e costituiva un affondo trasversale sul polimorfismo esasperato del visibile incompreso dai più (che per laterali versi ricorda l’eccentrico exploit video-situazionista Thee first trancemission dei primi Psychic tv), che in seno alle crudezze mostrate spesso senza tatto alcuno hanno inevitabilmente finito per scambiare l’oggettivo geo-zapping per mera sete di choc.
Invero la contemplazione non ammetteva differenze né gerarchie tra il fascino per inesorabili e flemmatiche colate laviche e il gelo delle più devastanti immagini del conflitto inter-etnico jugoslavo, tra eden e mattatoio, tra materiali laidi e poetici, e la password voleva essere malìa: lo schermo si faceva specchio, e poi attraversamento dello specchio, e dall’altra parte dello specchio c’era un altro specchio che si faceva schermo e viceversa. Tutto così vero da sembrare finto, toglieva così tanto ogni certezza da far sentire vivi e (in)certi di tutto, ubiquo nell’ovunque, morte che ci spetta compresa, e spesso in primis. Tutto, volendo, molto bello.
Le prime bordate polemiche, tuttavia, non tardarono a farsi largo a spintoni. Come Schegge, anche eveline tappava buchi palinsestuali e vi si poteva incappare alle ore più disparate, garantendo il what-the-fuck mentre facevi merenda. Trasmesso poco prima dell’ora di cena, l’insostenibilmente straziante filmato delle ultime ore di Omaira Sanchez (la tredicenne colombiana divenuta paradigma della devastante eruzione vulcanica di Nevado del Ruiz, rimasta con la gamba tragicamente incastrata sotto un pilone di ferro mentre torrenziali piogge facevano aumentare il livello della massa fangosa e detritica del lahar che la ucciderà) fece nel 1985 il paio con quello di Rampi (con le ingorde telecamere che accompagneranno spudoratamente il martirio della ragazzina fino all’obitorio, per un ammontare di oltre tre giorni di impietosa diretta), ma questa volta non tardò a far finire alla sbarra mediatica un Ghezzi ospite di quegli ipocriti programmi che mentre fingono avversione per la tv del dolore non fanno che raddoppiarla il più sacrilegamente possibile: come da copione, il prode Enrico fu costretto a difendersi dal bieco moralismo di uno sleale e doppiogiochista apparato che in nome dell’informazione fa della (svalutazione della) morte un perché, e che non mancò di trasmettere integralmente l’evelina incriminata, appellandosi a una giaculatoria quanto artificiosa pietas. Di nuovo: il peccato sì, ma guai al peccatore. A meno di non essere o ritenersi ministro di Dio, beninteso. Non è un caso se tra gli ospiti del programma che tuonano contro l’operato di Ghezzi vi sono esponenti della curia. Come a riprova e chiosa, Enrico dixit, che la morte è accettata solo se è fantasma dell’opera, e non se l’opera è fantasma della morte.
Quasi in stizzita reazione a questi j’accuse, la striscia diverrà vieppiù ambasciatrice di ogni possibile pena, perdendo molta di quella adamantina ambiguità che la contraddistingueva, e sarà dura non rivedere almeno per un attimo il proprio slancio assolutorio verso questa benemerita trasmissione alla luce del cinismo di cui si fece quasi voluttuosamente carico nella notte del capodanno del 1991: quasi a volerci ribadire per una decina di ore che il mondo non è altro che un obitorio in potenza, La notte delle eveline trasmessa a cavallo tra il 31 dicembre 1991 e 1 gennaio 1992 non conobbe freni né ritegno, dimostrandosi spietata, aggressiva e traumatizzante come mai più è stata, con un deathfilée da fare impallidire i più scafati mai più riazzardato da nostra signora dei mamma-li-turchi: in una discarica di Osijek una barbona raccoglie interiora umane e una testa semi-spappolata e dopo averle mostrate sorridente alla telecamera le inguatta in un carrello della spesa; il cadavere irrigidito di una ragazzina viene caricato in un camioncino del Nucleo Rimozione Cadaveri di Vukovar; basculandogli attorno, la telecamera ci mostra senza pietà il cranio scoperchiato e le cervella rigurgitate e irrigidite dal gelo; a bunjee-jumping finiti male si succede il famigerato suicidio integrale di Budd Dwyer (che da Death scenes in poi diverrà immancabile nella quasi totalità degli shockumentaries), cui farà seguito l’esecuzione di Ceaucescu, e via così all night long, una collezione per tutti i disgusti tra catastrofi naturali e non, un affastellarsi di atrocità assortite senza mai un frame di respiro, addivenendo all’apogeo dell’impertinenza con l’augurio di buon anno nuovo lampeggiante in sovraimpressione sugli straziati cadaveri di un obitorio ucraino: di fronte a una simile valanga di plasma e cadaverina il salto da amoralità a immoralità potrebbe diventare di quelli significanti, e la parentela tra una pista nera simile e i death film nipponici farsi pericolosamente stretta. Di lì a poco più di un anno dissennatezze simili verranno pagate dallo staff di Fuori Orario con salatissime multe che obbligheranno a una esponenziale autocensura: le successive Notti delle eveline non si spingeranno più così in là, pur non mancando di assestare qua e là fendenti molto crudi – come quello dei prigionieri di guerra presi a calci nei denti e nelle tempie dallo stesso Hussein o le più atroci mattanze dei genocidi rwandesi tra Hutu e Tutsi, per dire; o come l’agghiacciante evelinacht del 1995 interamente dedicata alle peggiori torture ed esecuzioni di animali.
Nel frattempo il mezzo video diventa un progressivo status symbol sempre più a portata di credit-card e vieppiù accessibile e maneggevole per chiunque, e grazie a questo progressivo sdoganamento la tirannia delle plebi potrà mettersi in pari con le peggio traversate obitoriali scodellate dai teleschermi e fabbricare i propri necro-leviatani: i battenti dell’era del death-movie fai da te possono dirsi spalancati e affollatissimi, un neo-Ade dell’immagine va ramificandosi, con il Giappone, come vedremo presto, sugli scudi.