Maurizio Lucidi
Un bravo regista (da riscoprire) e un uomo simpatico

“L’occasione fa l’uomo ladro”, dice il proverbio. Anche “ladro” di notizie, per sapere, scoprire, svelare ciò che fino a quel momento era ignoto. Passando a spiegare. L’occasione scatenante fu il fatto che venissi interpellato da Federico Caddeo per un’intervista su alcuni film, in vista di un’uscita in Blu ray. Tre titoli unificati dallo stesso regista: La vittima designata, L’ultima chance e Gli esecutori. Si sarebbe parlato di Maurizio Lucidi, quindi, che tutti gli apassionati di bis italiano conoscono e associano alle pellicole anzidette, così come ai western, a quel paio di bellici che diresse (uno dei quali, Probabilità zero, sceneggiato da Dario Argento) e alle commedie che distinsero l’ultima parte della sua carriera nel cinema, da Due cuori e una cappella in avanti. Dopo, Lucidi passò in pianta stabile alla tv, che è zona carsica e meno nota dell’opera sua, ma non meno interessante (basti citare Il prezzo del denaro con Massimo Ranieri, tv movie assai bello, crudo e violento). Comunque, dei film di Lucidi si sa parecchio, della Vittima designata in primis, perché è un ottimo film, perché è un Tomas Milian, perché Aldo Lado, spesso aiuto regista di Lucidi, ha raccontato abbondantemente aneddoti e retroscena (il libro di Giorgio Navarro Il padre della luna, basti ed esaurisca il rimando ad essi). L’ultima chance e Gli esecutori sono forse meno noti, ma anche su di essi c’era parecchio da raccontare. Restava il problema di Maurizio Lucidi in sé: chi era, chi non era, i suoi dati biografici. Di lui si conosce pochissimo, in effetti, se non che proveniva da una famiglia di montatori del cinema, che egli stesso praticò per diversi anni in sala moviola, prima di debuttare nella regia, che nacque a Firenze, nel giugno del 1932, e che morì a Roma nel 2005. Notizie rare e sommarie, in effetti. Che lo si veda in un cammeo della Vittima designata, nella parte di un poliziotto e che si doppiasse con la propria voce (con tipica erre moscia), lo sapevo: ma non era altro che una curiosità, un piccolo aneddoto. Il resto era buio. Non ci sono interviste d’epoca a Lucidi, quantomeno, io non ne ho mai trovate. Stando così le cose, ho raccontato a Caddeo tutto quel che sapevo di Lucidi regista e di quei suoi tre film: il suo stile, che aveva ed è riconoscibile, la sua tecnica, l’attenzione che pareva sempre posta più sull’azione interna dei personaggi che sulla fenomenologia epidermica, i suoi tempi che, da montatore, aveva sempre molto chiari e netti. Ma mi restava il tarlo di non conoscere niente o quasi dell’uomo…
Tuttavia, ricordavo, foscamente (l’età avanza…) che qualcuno, in un passato tra il prossimo e il remoto, di Lucidi mi aveva raccontato qualcosa. Così, a furia di rifletterci, tirai fuori un nome. Lilli Bonolis. Lilli, cioé Maria Bonolis, mi ero messo a cercarla tempo fa, volendo far luce sul gineceo di Emanuelle – Perché violenza alle donne. Maria Bonolis risultava ai generici finali del film di Massaccesi, ma nessuno si era mai dato la pena di identificare poi chi fosse, effettivamente, nella storia. Lo feci io e Lilli, che nel frattempo avevo trovata e contattata, mi confermò di essere lei la ragazza in vestaglia, che si pittura distrattamente le unghie e sfoglia una rivista mentre la Gemser fa un passaggio in un interno di un palazzo romano, in quella parte dove Emanuelle sta andando un po’ sulle orme dei fatti del Circeo. Attrice all’epoca (ebbe un bel ruolo in Disposta a tutto di Stegani) prima di avviarsi a una carriera di montatrice che tuttora perdura, Lilli – finalmente focalizzavo – mi aveva accennato di essere stata la compagna di Alessandro Lucidi, il fratello di Maurizio Lucidi. Ma quando le avevo parlato, allora, la mia attenzione era centrata principalmente su quello che lei aveva fatto in cinema (per gli interessati, rimando al numero 187 di Nocturno). Siamo rimasti amici su Facebook, con Lilli, che è una cara e sensibile persona. Sicché, la sento…
Sì, mi conferma Lilli, Maurizio Lucidi aveva la erre moscia, esattamente come il padre. Perché io le parlo subito del cammeo in cui l’ho riconosciuto nella Vittima designata, dove la voce era la sua. «Lui fa un piccolo ruolo anche in Due cuori e una cappella, il suo film con Renato Pozzetto: mi pare che fosse un gioielliere, lì… Maurizio l’ho conosciuto quando mi sono messa con Alessandro, suo fratello: parliamo del 1982. Alessandro gli aveva montato e gli stava montando delle cose e io lo assistevo…». Però, occorre partire, come si dice, ab ovo, per stilare la complessa genealogia dei Lucidi: «Maurizio nacque a Firenze, perché la nonna, cioè la madre di suo padre Renzo Lucidi, era di origini danesi e in Italia aveva conosciuto Erasmo Lucidi: era una “donna di ferro”, morta a 103 o 104 anni, che aveva costruito quattro alberghi prestigiosi, molto nominati, gli hotel Dinesen: uno a Firenze, dove nacque Maurizio, uno a Venezia, dove nacque Alessandro, uno a Napoli e uno a Roma, a Porta Pinciana». Maurizio e Alessandro erano fratelli per parte del padre, Renzo Lucidi, ma con madri diverse. «Renzo credo fosse sposato con una certa Adrienne, una francese, la quale aveva già un figlio, che si chiamava…. oddio, ora non ricordo, era un nome strano… Geraldo, ecco!, soprannominato “Pico della Mirandola”. Prima di Maurizio, ebbero un figlio, che morì a quattro anni, per una di quelle malattie che all’epoca – parliamo degli anni Venti o Trenta – erano incurabili… Vidi anche una foto di questo bambino, molto bello e che somigliava tantissimo a Maurizio. Poi venne Maurizio, che in realtà si chiamava Maurice ed era perfettamente bilingue, italiano e francese.

Renzo Lucidi
Maurizio ha vissuto molto con la madre, Adrienne, perché a un certo punto Renzo la lasciò e non ricordo con chi si mise. Fatto sta che poi si unì con Francesca, dalla quale ebbe Alessandro e Paolo, l’ultimo dei fratelli. La prerogativa, la sostanziale differenza tra Maurizio e Alessandro, era che Maurizio era una persona molto affettuosa, simpatico da morire, mentre Alessandro era molto più freddo, più severo, più somigliante al padre. Maurizio aveva dei conflitti con il padre, forti conflitti, tant’è vero che lo chiamava “Renzo”, e non “papà”. Renzo è stato un grande montatore, fu lui, in primis, a dare il via alla professione e i figli gli si sono tutti accodati. Tutti e tre, anche Paolo, cominciarono a fare gli assistenti al montaggio, poi Paolo si è indirizzato verso la produzione ed è diventato un bravissimo organizzatore, uno dei migliori in Italia, e produttore esecutivo. Renzo Lucidi, dopo avere avuto Alessandro e Paolo, ebbe altre donne… era uno che si dava molto da fare, molto da fare… Tornando però a Maurizio: come montatore lavorò anche in film importanti, nel Sorpasso di Risi, nei Mostri…». A partire dal 1959 e fino al 1966/67 circa, Lucidi ebbe al proprio attivo poco meno di trenta pellicole montate: parecchi peplum e avventurosi del periodo, commedie, anche di livello, alcuni film di Dino Risi, appunto, una collaborazione non accreditata al montaggio di Il sangue e la rosa di Vadim. Ma, nel 1964, abbiamo traccia della sua presenza come aiuto regista del Vangelo secondo Matteo di Pasolini e negli scatti di Domenico Notarangelo è possibile vedere Lucidi sul set, tra i sassi di Matera, vestito con maglioncino e pantaloni bianchi. Lilli mi dice che di questo lei non ebbe notizia «ma può benissimo darsi. Maurizio era nato nel 1932, quindi nel 1964 aveva trentadue anni: ci può stare che già praticasse come aiuto regista. Lui, dei fratelli, era quello che si era avviato alla regia e che ha mantenuto nel tempo la professione. Alessandro fece un solo film come regista – glielo montai io –, Al calar della sera, con protagonista Daniela Poggi, girato in quindici giorni, nel 1992».

Pasolini, Enrique Irazoqui e, seduto, Maurizio Lucidi

Pasolini e Lucidi, vestito di bianco, sul set del Vangelo secondo Matteo
Ma sono i fatti della vita privata di Maurizio Lucidi quelli sui quali finalmente Lilli mi getta un bel fascio di luce: «Si sposò una prima volta, Maurizio, con la baronessa Giovannella Bruno di Belmonte, dalla quale ebbe due figli: il primo è morto molto presto, il secondo, Marcantonio Lucidi, è diventato un importante critico teatrale e facilmente trovi notizie di lui in rete, oggi. Quando lasciò Giovannella, Maurizio si mise – e la sposò anche, credo – con Katia Chistine, l’attrice». Del legame con la bella olandese (classe 1946), entrata nel cinema italiano passando prima da quello francese, sapevo: in molti film di Lucidi (La più grande rapina del west, i due bellici Probabilità zero e La battaglia del Sinai, fino alla Vittima designata), la Christine appare e in ruoli di risalto. Non sapevo che fossero anche sposati: «Sì, penso proprio di sì, anche perché poi venne fuori un problema legato a una casa eccetera: lei si sposò anche in America, quando si traferì là, e quindi risultava bigama. Da Katia, comunque, Maurizio ebbe un figlio, Erasmo. Tutti i figli di Maurizio sono bilingue e hanno studiato al liceo Chateaubriand, qui a Roma, sia Marcantonio che Erasmo. Con Erasmo sono ancora in contatto, mentre di Marcantonio ho perso un po’ le tracce, dopo il funerale di Maurizio».

Katia Christine
Lucidi morì nel 2005 a causa di un aneurisma addominale: «Ricordo molto bene quel periodo: lui era socio della CVD (Cine Video Doppiatori, la società di doppiaggio di cui facevano parte Giannini e altri nomi impirtranti), perché Maurizio faceva anche il direttore di doppiaggio, e ricordo in più di un’occasione di averlo visto che si piegava in due, a causa di questi dolori mostruosi che lo prendevano allo stomaco, per quella che si pensava fosse un’ulcera. Ti sto parlando di diversi anni prima del 2005. Senonché, una sera ci chiamò la sua compagna – abitavamo vicini, perché Maurizio stava in Piazza Pasquino, noi a via di Panìco – per avvertirci che Maurizio era stato ricoverato d’urgenza all’Isola Tiberina. E lì ci furono anche una serie di negligenze mediche: ti dico solo che quando arrivammo al Pronto soccorso, avevano il problema di fare una radiografia a Maurizio, che non poteva stare disteso e non c’era nessuno che si prestasse a sorreggerlo: Alessandro si offri di sostenerlo lui: “È mio fratello, a me di prendere i raggi non frega niente!”. E pensa che anche in quella circostanza Maurizio cominciò a cazzeggiare, anche lì al pronto soccorso, scherzava: perché lui era così, ti faceva veramente morire dalle risate! Poi, la stessa notte è venuto a mancare. Fu una cosa terribile…». I rapporti tra Maurizio e il fratello Alessandro si erano un po’ raffredati, dopo l’episodio Le Gorille dans le cocotier, della miniserie italofrancese Le Gorille, nel 1990/91, protagonista il massiccio Karim Allaoui. «Maurizio lo diresse e glielo montò Alessandro, io facevo l’assistente. Avvenne una frizione, un giorno, in moviola, alla Fono Roma, tra loro, discussero e ne seguì un certo allontamento da allora, per un po’ di tempo. Maurizio ebbe anche un tumore in seguito, da cui però uscì e quindi ci fu anche un riavvicinamento con il fratello».

Le Gorille
Purtroppo, Maurizio Lucidi non appartiene al novero dei registi italiani di quegli anni che sono andati incontro a ripescaggi e rivalutazioni. E toccherebbe fare ammenda di questo, perché esiste ed è sensibile un “fattore Lucidi”, che è qualcosa che ha a che vedere con lo “stile”, non solo come tecnica e tratto specifico, ma proprio come stile, cioè come gusto, come sensibilità. E questo lo si nota – o quantomeno, lo noto – quale filo d’Arianna all’interno di una filmografia labirintica e ondivaga tra generi differenti, che trascolorano dal dramma, all’azione, al nero, al giallo, alla commedia. Era regista che non andava mai passivamente sull’onda altrui e anche i “westernini” degli esordi hanno una loro precisa personalità nel senso appena detto. E forse anche per questo aveva credito per poter realizzare, come fece, Gli esecutori, del 1976, a San Francisco, armato di un cast con nomi come Roger Moore e Stacy Keach. Non pareva interessato all’azione plateale, come già si è detto, quanto a una certa azione interiore, ai rapporti tra i personaggi, ma mai in modo pesante o grezzo: «Io penso che quando tu hai fatto il montatore come aveva fatto Maurizio, hai una marcia in più… Ci sono stati ex montatori che sono diventati grandi registi e non lo dico perché faccio questo mestiere, ma è così. Perché sai già quello che ti serve, sai quello che può esserti utile e questo ti permette di andare a fondo a certe cose, di rendere meno banale e superficiale una storia. Ricordo che Renzo mi raccontò, più di una volta, un aneddoto relativo a Si può fare… amigo, il western di Maurizio con Bud Spencer… Adesso, se tu dovessi chiedere una cosa del genere a un regista, si offenderebbe, perché non capiscono, oggi, quanto sia importante quello che ti può chiedere un montatore: metti che stiano girando sulle Montagne della Val Gardena e tu chiedi al regista, che magari ti ha chiamato per sapere com’è il materiale: “Senti, già che ci sei, mi giri questo dettaglio o quell’altro?”. Niente, oggi non lo capiscono, che il montatore non è che voglia prendere il posto tuo, ma gli serve quel materiale: fa parte del nostro lavoro… Comunque, Renzo mi raccontava che aveva chiesto a Maurizio di fare qualche dettaglio dei cavalli in quel film… gli zoccoli, le narici eccetera, e che gli arrivarono dal set – faceva proprio il gesto della pizza di pellicola – decine e decine di metri di dettagli (ride). Oggi la figura del montatore un po’ come un consigliori non esiste più.

Maurizio Lucidi
A Maurizio io ho voluto molto bene, mi manca tantissimo anche a distanza di anni: ogni tanto vedo una sua ex, che è stata attrice e che lui conobbe mentre girava Il lupo di mare, il film con Gigi e Andrea. Maurizio incontrò questa Francesca De Filippo, una bellissima ragazza che era spesso sulle copertine, tipo L’espresso. Si mise con lei, che era molto più giovane, 33 anni di meno. Quando ci incontriamo con Francesca, facciamo un sacco di risate ricordando quanto fosse simpatico e divertente Maurizio, i suoi scherzi, cose “alla Amici miei”. Che ne so? Si metteva a salutare gente in lontananza, che non conosceva, e questi a loro volta si guardavano alle spalle convinti che stesse salutando altri… Era un burlone, un divertentissimo matto. Te ne racconto una passata alla storia: andammo a fare, lui e Francesca, io e Alessandro, una vacanza in Costa Azzurra… Essendo Maurizio per metà francese, erano tutti luoghi che conosceva molto bene. Partiamo in macchina da Roma, la mattina, tutti e quattro e arriviamo alla frontiera di Ventimiglia. Il doganiere ci chiede se abbiamo qualcosa da dichiarare e Maurizio se ne esce con un: “Sì, abbiamo la refurtiva della rapina che abbiamo fatto ieri!”. Non puoi capire: ci hanno tenuto ore a perquisire noi, la macchina… (ride). Cioè, lui era così… un burlone, un buffone, un uomo molto intelligente, con una grandissima cultura. Passavamo le ore a farci raccontare le sua avventure, anche in Francia, con Vadim e con altri registi.. Con me devo dire che è stato sempre molto carino, affettuoso e protettivo e si distingueva dalla severità che invece caratterizzava, Alessandro, più o meno nei confronti di tutti. Maurizio aveva questa forte affettività, anche epidermica, quando ti abbracciava sentivi un abbraccio protettivo… Aveva il vizio che sul set, durante le riprese, “stronzeggiava” un pochetto, nel senso che alzava un po’ la cresta e qualcuno lo accusava di questo, di andare sopra le righe. Poi, alla fine, comunque, finiva il film e passava tutto… ».

Lilli Bonolis (a sinistra) e Francesca De Filippo
Devo a Lilli Bonolis, oltre a quanto mi ha fin qui raccontato, di avermi impistato su un preziossimo filmato che nella mia ignoranza non conoscevo, pur essendo facilmente visionabile in rete: si tratta di un film documentario, di poco meno di un’ora, Rosabella – La storia italiana di Orson Welles, diretto da Ciro Giorgini e Gianfranco Giagni nel 1993 e presentato anche al Festival di Venezia dello stesso anno. Al di là dell’essere un reperto straordinario, che ripercorre una sezione cospicua della vita di Welles in Italia, anche e soprattutto correlata a quella serie di progetti di film pensati, avviati, dilatati nel tempo, fatti e disfati a mo’ di una estenuante tela di Penelope, il documentario contiene le testimonianze di chi fiancheggò Welles nel suo opus infinutum, anche quelli di Renzo e di Maurizio Lucidi. Il padre Renzo è presente in un solo intervento, che consente di apprezzare la somiglianza con il figlio Maurizio, il quale, a più riprese e a lungo, ha modo di raccontare del proprio ruolo, sia di montatore sia di aiuto regista, nel misterico e mai ultimato Don Chisciotte e anche in Nella terra di Don Quixote, il documentario che nel 1964 vide la luce in Rai (nove episodi da circa mezzora l’uno, ma ne vennero trasmessi solo otto) e che Welles aveva girato dal 1961, raccogliendo materiali in ordine sparso durante un viaggio in Spagna con la moglie Paola Mori e la figlia Beatrice: quasi un filmino familiare, cui l’edizione televisiva aggiunse un ordine e una consequenzialità che non esistevano in origine. Lucidi si diffonde sul Don Chisciotte, rivelando tra altre primizie, quale dovesse essere il vero inizio pensato da Welles, ambientato al castello di Bolsena dove, a una festa in maschera ambientata al giorno d’oggi, giungono l’eroe di Cervantes con Sancho Panza che si rivelano i se stessi leggendari e cominciano a narrare agli astanti le loro avventure. Lucidi, che si esprime con chiarezza, con brio e con buona proprietà di linguaggio, fu dunque anche aiuto di Welles, in un periodo che con tutta probabilità coincise con i primi anni Sessanta e che va ad aggiungersi all’altro impegno prestigioso sul set di Pasolini.
Ho il sospetto che altro resti da scoprire sulle sue attività di quel periodo, prima del suo esordio come regista nel 1965, con La sfida dei giganti, girato dal febbraio del 1965. Ad esempio, sarebbe bello capire cosa fosse un cortometraggio di dieci anni prima, prodotto nel 1955 dalla Metron di certo Jeftele Riccò, che al PRC risulta con regia di Maurizio Lucidi, dal titolo Letame. Lilli mi svela un altro retroscena inedito, legato a un film al quale lei lavorò come assistente al montaggio di Alessandro Lucidi e che in grandissima parte venne diretto dal fratello: «Questa è una cosa che non si sa, ma Champagne in paradiso, con Al Bano e Romina, fu girato da Maurizio. Poi cosa successe? Praticamente, piombarono in moviola Al Bano e Romina… Maurizio non si fece trovare, c’era solo Alessandro. E lei, Romina, con un fare molto invadente, cominciò a dire: “Ah, io sono nata in moviola, perché ci andavo sempre quando mio padre faceva l’attore …”. Insomma, successe un mezzo casino, perché loro volevano ingerire nella regia, in qualche modo, e Maurizio, giustamente, questo non lo accettava. Quindi disse “Basta, io adesso interrompo il film!”. Tutti quanti noi, insieme a lui, abbiamo mollato per solidarietà nei confronti del regista. E credo sia stato chiamato Aldo Grimaldi a finire il film». Frammenti di memorie, schegge storiche, queste raccontamenti da Lilli che insieme ad altre sparse membra aneddotiche che Aldo Lado, per esempio, ha seminato nella propria autobiografia (che presto leggerete, mi auguro), sarebbe bello potessero costituire i prolegomeni a un futuro corposo studio su Maurizio Lucidi…