Monte Cazazza: Death’s all, folks! 1
L’uomo del Monte ha detto “Sick!”. Monte Cazazza è stato per l’arte e la cultura ufficiale ciò che Unabomber è stato per la tecnocrazia o Peter Sotos per la pornografia…
Mentre la pornografia della sofferenza si appresta a diventare un vero e proprio format televisivo fintamente nobilitato dal diritto di cronaca, e la grigiastra cappa della real tv incomberà sui palinsesti, a latere, lo stesso telespettatore scopre di avere i più che necessari mezzi et sistemi per produrre il proprio fai-da-te. Basta una telecamera in mano, anche scrausa, e uno sciagurato misfatto qualsivoglia che capiti davanti a essa, e non vi sarà più nemmeno bisogno dell’abilità da pokerista baro della quale Jacopetti e compagnia epigonante si sono avvalsi per tenere in verticale tutto un genere fatto soprattutto di stupore per il gioco di prestigio. Fine dell’illusionismo. Ora si fa sul serio. Si cattura il reale, lo si assembla, si usa un mixer dell’anteguerra per i titoli e, di pari passo con Le Cilaire, anche lo Studio Mafera può andarsene in vacanza. Soprattutto non si ha più nemmeno bisogno di budget per viaggiare alla scoperta di continenti inesplorati, specie se si abita in zone particolarmente violente e disastrate come l’America Latina, El Cartucho, Cuernavaca o Kamagasaki. E vivaddio, sono scongiurate anche le spese da devolvere al reparto f/x. In un’epoca in cui il true-crime sta per essere fictionalizzato e standardizzato grossolanamente dalla più iniqua tv menagrama, e in cui la real tv sta per diventare consorella di Paperissima, il primo a subodorare il danno mediatico, a correre ai ripari, a contrattaccare con la massima improntitudine e a sbugiardare chi sfrutta la cultura dell’estremo ai soli fini di mantenere lo status quo, sarà, nel 1986, nientepopodimeno che Monte Cazazza.
Figuro controverso, beneficiario di un certo culto, appartato outsider che ha trascorso l’intera esistenza ad aggiudicarsi una pessima reputazione finanche negli stessi ambienti di arte estrema (la stessa Bay Area Dadaist, arriverà a ritenerlo “persona non grata”), psicopatico abilmente mascherato da artista (ma è vero anche il contrario), esponente della più manicomiale e illegale danger-art quando ancora questa non era blasonato affaire appannaggio delle art-gallery e delle riviste più in, definibile per sommi capi come un GG Allin armato di molta più astuzia sociale e più intellettualmente affilato, ma con pari problemi di inesistente super ego depressivo, Cazazza è stato per l’arte e la cultura ufficiale ciò che Unabomber è stato per la tecnocrazia o Peter Sotos per la pornografia. Basti per tutte la colata di cemento a presa rapida rovesciata senza troppi complimenti all’ingresso (e sull’astanteria) dell’Oakland College of Arts and Crafts, presentata come scultura concettuale e manufatto di edilizia umana: praticamente una crasi di humour nero e dadaismo elevati allo stato dell’omicidio dequinceyanamente inteso, che oltre all’espulsione dalla scuola gli valse l’arresto, l’internamento coatto in psichiatria e la confisca di molti suoi materiali cartacei e visivi (tra questi la prima incursione gay-hard a base di fist-fuck da lui diretto: si deve, infatti, a lui il brevetto di tale pratica e la sua immissione nella pornografia con un altro mondo-short, Mondo Homo), nonché il ritrovarsi bandito a vita da tutte le art-galleries californiane (e non stiamo nemmeno parlando del suo live-act più off-limits).
Cazazza è l’incarnazione ambulante dell’eterno adolescente morboso, e soprattutto del’esatto rovescio dell’assioma epicureo: “quando c’è lui c’è la morte, e quando c’è la morte c’è lui”. Oltre ad aver coniato la musica industriale ed esserne stato il pioniere ben prima dei TG, e ad aver trasceso ogni specifico creativo con una marea di altre ramificate esperienze che non possono essere sintetizzate in questa sede, tra le sue più maniacali ossessioni contro-culturali un posto d’onore lo hanno sempre occupato – in tempi non sospetti e lontani chilometri dalla recente moda che eleva ad eroe o icona da t-shirt i serial killers – i veleni e i più grandi avvelenatori seriali o di massa che la criminologia possa vantare (Jim Jones e Graham Young su tutti); la sfera comportamentale dei criminali più atipici, si chiamino Mary Bell (cui dedicherà una canzone) o Gary Gilmore (la cui eroica posa finale incarnerà assieme ai suoi amici Genesis P-Orridge e Cosey Fanni Tutti in un catalogo fotografico poi mutato in postcards per la mail art); il corpo umano con tutti i suoi guasti e collassi e annessi atlanti di medicina legale (con l’occhio di bue particolarmente puntato su malattie veneree, pestilenze e freaks); il cospirazionismo in tutte le sue sfaccettature, l’anatomopatologia, la batteriologia, la guerra nucleare e l’arte estrema. Interessi che verranno in buona parte traslitterati su nastro magnetico avvalendosi del supporto di Matthew Dixon Causey (che leggenda metropolitana, mai confermata e mai smentita, vuole essere Cazazza stesso): da questo joint a deux prenderà vita il primo shockumentary espressamente concepito per il mercato video (giapponese, nemmen dirlo), e a tutt’oggi anche l’ultimo a potersi fregiare di un’eccentrica aura e araldica artistica, che lo rende, se non altro, peculiare e unico nel genere: True Gore.
True Gore sembra partire da un presupposto molto semplice: chi ha detto che la parte dove va messa l’arte imparata non possa (o non debba) essere l’obitorio? Altrimenti detto: è possibile fare del mondo-movie un’opera d’arte o, quantomeno, una riflessione anche sul rapporto tra arte e morte? E ancora: è possibile scardinare dall’interno il fenomeno Faces-of-death? Cazazza se la domanda retoricamente e se la risponde con un “per sfuggire all’Orrore devi esserci immerso” di genetiana memoria. Risultato: l’operazione da una parte sembra parodizzare l’epopea lecilairiana e dall’altra sembra assecondarne passo passo i criteri, ricorso alla finzione compreso. A ogni passaggio del film sembrano coesistere 3 anime diverse: quella rispettosa dei tòpoi del death-movie inaugurato da Schwartz (tipologia repertoriale da passare in rassegna, accondiscendente commento a cavallo tra sobrietà, compassione e vis polemica, mash up tra immagini paurosamente vere e perculate totali); quella che intende sublimarlo ed esuberarlo trasversalmente con stilettate di cultura e aplomb da acuto pensatore (si parafrasano a man bassa Caraco, Cioran e Schopenhauer); e quella che, con colpo ferire, va a esacerbare capra formale e cavoli sostanziali fino a irridere il mondo non solo in quanto genere ma proprio in quanto pianeta nel suo insieme. Chi conosce Cazazza sa bene che stiamo parlando di un astuto prankster ossessionato da ogni forma di marciume umano e di crudeltà incondizionata, che ama rendere indistinto il limite tra chi scherza e chi fa sul serio. Com’è appunto tipico dell’artista. Di mortalmente serio c’è senz’altro il dichiarare guerra agli artifex che lanciano il sasso e nascondono la mano, siano essi televisivi, cinematografici o coraggiosi capitani dell’arte più oltraggiosa. Non è più aria per i pusillanimi che giocano a nascondino dietro il dito medio della teoria: se si deve sbattere in faccia all’audience la morte, tanto vale adottarne l’allegro punto di vista del gaudente necrofilo o del gioioso sadico che esige un posto in prima fila centrale nell’assistere all’avanspettacolo di una società fondata sul più compulsivo masochismo. Ed ecco che tra sfottere l’epopea del Dr. Gross e sopravanzarlo con puntiglio scientifico sul destino post-organico del corpo è un tutt’uno.