47 Ronin
2013
47 Ronin è un film del 2013 con Keanu Reeves.
Il 14 Dicembre si celebra in Giappone una ricorrenza che sintetizza i caratteri cardine della cultura e della tradizione di questo popolo: l’Ako Gishi-Sai, una rievocazione, che ha luogo nel tempio di Sengakuji, di un episodio storico avvenuto agli inizi del 1700, in cui un gruppo di samurai divenne orfano del proprio padrone, tale Asano Naganori, costretto a sbudellarsi secondo il rito del seppuku. 47 di questi samurai, divenuti ronin (senza più padrone), decisero di violare l’ordine di non perseguire la vendetta e, pur consapevoli di andare incontro a loro volta a una condanna a morte, decisero di uccidere chi aveva incastrato l’amato padrone per ripristinarne l’onore, seguendo il codice del bushido.
La vicenda venne adattata in un’opera teatrale, il Kanadehon chūshingura, che contribuì a esaltare le gesta eroiche dei 47 ronin e ad elevarli nella cultura popolare a gishi, ossia uomini retti. Neanche il cinema poteva rimanerne indifferente, e difatti si conta in Giappone una mezza dozzina di rappresentazioni tra cui l’adattamento del maestro Mizoguchi Kenji, commissionato dall’esercito giapponese per poterne fare un forte racconto moralizzatore: Mizoguchi girò ovviamente una sua versione più complessa e introspettiva e il film si rivelò un fallimento commerciale.
Di tutt’altra pasta 47 Ronin, la versione immaginata dagli sceneggiatori Chris Morgan e Hossein Amini e diretta dall’esordiente Carl Rinsch: ambientato in un Giappone feudale fantastico, la vicenda classica si mescola al fantasy più spudorato, mettendo in scena giganti, animali mostruosi, streghe e superpoteri. Il volto che pubblicizza l’operazione è di Keanu Reeves, che, unico occidentale in un cast tutto nipponico, interpreta Kai, un giovane mezzosangue dalle origini misteriose raccolto nei boschi dal feudatario di zona, Asano Nagahori.
La morte di quest’ultimo, causata con un inganno architettato da una strega in grado di assumere sembianze animali, provoca l’esilio dei samurai al suo comando e la schiavitù di Kai. Il capo dei samurai, Oishi (i fan di Ringu riconosceranno subito il bravissimo Sanada Hiroyuki) salva Kai dai combattimenti clandestini e ricostruisce il gruppo di ronin allo scopo di vendicare l’onore del proprio padrone. Della vicenda originaria di 47 Ronin viene mantenuta l’ossatura essenziale, per poi sterzare dai classici temi verso l’intrusione di un elemento allotrio, quel Kay che percorre, in parallelo con la presa di coscienza dei samurai del profondo significato del bushido, un percorso di crescita che lo porterà da una parte a conoscere le sue origini e le sue potenzialità soprannaturali, dall’altra a un rovesciamento dello stereotipo che, in storie come queste, vedrebbe la sua avventura come un passaggio di livello per poter accedere alla donna amata, la figlia del padrone perito.
Le prove che i 47 ronin affrontano hanno come unico fine il riscatto della propria condizione da fuoricasta di guerrieri senza una guida, non più samurai e non più semplici uomini che possano condurre una vita normale. Una volta tanto la scelta di una star hollywoodiana è giustificata, e Reeves fa del suo meglio per non ridursi a figura di sfondo e non rimanere relegato alle pur belle scene di combattimento. Rinsch però sceglie di non affidarsi del tutto al notevole cast e a certi risvolti che possono non piacere a chi si aspetta un fantasy convenzionale, e ci ricama sopra, a volte eccedendo lo stile estetizzante, che scimmiotta l’eleganza naturale dei grandi maestri orientali, per accompagnare le sontuose scenografie degli interni e le suggestive ambientazioni naturali, mentre l’uso intensivo del digitale per dare vita a creature fantastiche trasforma presto la vicenda in una versione giapponese del Signore degli anelli.
47 Ronin è eterocromico come la strega che rappresenta: un occhio affascinato dalla tradizione e gli stereotipi giapponesi e un altro puntato al fantasy per la massa, a cui può piacere l’avventura ben ritmata, un po’ meno il gran finale epico e tragico: a questo probabilmente è dovuto buona parte del suo – ingiusto – insuccesso (in America è uscito a Natale senza furore) ma può di converso convincere i fan del cinema orientale a dare un occhio di riguardo al lavoro di Rinsch, che, rispetto a tanti suoi predecessori, c’ha provato a occidentalizzare senza mettere in scena solo stereotipi.