5 è il numero perfetto
2019
5 è il numero perfetto è un film del 2019, diretto da Igort.
L’apprezzabile marcia indietro di Toni Servillo avrà pure placato l’indignazione della comunità fumettistica italiana, ma la poca considerazione che gli autori di 5 è il numero perfetto hanno di quello stesso materiale che in teoria hanno provato ad omaggiare, resta purtroppo palpabile. Buone e vaghe intenzioni permeano l’esordio da regista di Igort, che a sessant’anni arriva finalmente dietro la macchina da presa per adattare una propria opera del 2002 con il più genuino spirito del debuttante finalmente padrone della macchina dei sogni. La trama del film vive di archetipi noir, al punto che parlare esplicitamente di “citazioni” (da Melville, a Hawks, ad Altman e mille altri) non ha neanche molto senso. Il racconto è ormai di quelli universali. Brevemente: un sicario della camorra “in pensione”, animato da vecchi valori borghesi sulla criminalità di una volta, è costretto a tornare in azione dopo l’uccisione dell’amato figlio ed erede designato. Radunando la sua vecchia banda di complici, muoverà una blanda ed estetizzante guerra contro i presunti clan responsabili. L’idea di affrontare questo tipo di racconto a metà tra l’omaggio e lo sberleffo benevolo non è per forza malvagia: il cinema italiano da tempo accetta l’azione solo come parodia, e Igort non ha la determinazione di uno Stefano Sollima nel ribaltare questa concezione storica. In più, la moda del film-graphic novel (non fumetto, ci mancherebbe), che mima e riproduce le componenti visive della vignetta, è una cosa che nel resto del mondo si fa da una quindicina d’anni. L’Italia si era guardata bene dal muovere un passo ai tempi di Sin City o The Spirit (che a suo modo questo film ricorda, nei suoi aspetti più deleteri), e prova ora a recuperare terreno con un prodotto che pare veramente pensato nel 2007.
La prima impressione nella visione di 5 è il numero perfetto è quanto sia datata la sua maniera di porsi nei confronti dei suoi modelli: sposare idealmente un generico mondo hard-boiled di vari e generici riferimenti conclamati (cinematografici, ma anche letterari e fumettistici), con un’altrettanto generica messa in scena action mutuata dall’heroic bloodshed di Hong Kong. Due universi ampiamente battuti dal cinema degli scorsi anni, con cui Igort si cimenta armato di una lista di immagini da citare e molto poco di suo. Tutti questi ingenui quanto affettuosi propositi vengono però disinnescati da quello che sembra un totale disinteresse dell’autore stesso nei confronti di 5 è il numero perfetto. Dei fumetti noir tanto amati (meglio dei supereroi americani perché hanno come protagonisti i delinquenti, spiega un personaggio) manca proprio il divertimento, il senso di gioco e perché no di pericolo, proprie di queste narrazioni. Anche le tanto sbandierate sparatorie, furbescamente piazzate in ogni trailer, più che rimandare a Johnnie To, Tsui Hark o Kitano, ne sembrano una stanchissima presa in giro. Dai goffi movimenti di rispettabili attori teatrali visivamente a disagio nel mimarne le coreografie, all’altrettanto goffo rallenty che ne esalta i movimenti affannati più che nasconderli. Più che a questi miti dell’action, Igort sembra invece guardare ad una serie di stilemi propri del sorrentinismo più deleterio, accentuati dallo stile di recitazione tipico del protagonista Servillo (la sua parlata lenta, il suo spiegare e declamare lunghi monologhi mentali pieni di aforsimi).
Verboso, sentenzioso, distaccato e completamente asettico, in totale opposizione sia allo spirito dei modelli classici, sia a quanti (Robert Rodriguez il primo esempio) si sono negli anni confrontati con questo tipo di cinema. I ritmi action sono quindi soffocati da una struttura essenzialmente letteraria, in cui le poche svolte di movimento sembrano incollate in mezzo a scene infinite di dialoghi esplicativi tra gli svogliati personaggi. E la confusione degli attori è palpabile: Valeria Golino non ha praticamente un ruolo, e il sempre fantastico Buccirosso accentua la sensazione di sceneggiata propria delle bizzarre scenette action. In realtà, tutto ruota intorno ad un protagonista ingombrante come Peppino Lo Cicero: troppo presente, troppo parlante, l’intero film è uno show al servizio del suo eroe. Giustamente: l’idea di un Toni Servillo- Chow Yun-Fat è buona, ma sarebbe stata geniale una decina di anni fa. E un maggior amore nei confronti del poliziesco da parte della visibilmente annoiata superstar napoletana avrebbe certamente aiutato. Le buone idee vengono invece dai reparti tecnici, che senza inventarsi nulla sono comunque in grado di mettere insieme una Napoli-Los Angeles credibile: notte, vicoli, impermeabili, squallidi non-luoghi post-industriali danno quell’impronta estetica di cui il film ha bisogno più ancora che di una trama o di attori (non a caso le scene migliori sono quelle “isolate” dal resto, come la lunga sequenza dell’Elvis-indovino in apertura). Ma il problema è che 5 è il numero perfetto è un film sbagliato in primis sul piano produttivo, come troppi se ne vedono in Italia nel momento di cimentarsi con il cinecomic. Troppo in ritardo su se stesso, e diretto da un volenteroso fan con troppi ingombranti miti in testa. Ma sono miti vecchi, masticati, assimilati e omaggiati ormai da tutti, che al regista per primo sembrano ormai voler dire poco.