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A Complete Unknown

2024
Titolo Originale:
A Complete Unknown
REGIA:
James Mangold
CAST:
Timothée Chalamet (Bob Dylan)
Scott McNairy (Woody Guthrie)
Edward Norton (Pete Seeger)

Il nostro giudizio

A Complete Unknown è un film del 2024, diretto da James Mangold.

That’s all, I don’t think of you that often
Leonard Cohen, Chelsea Hotel

Nell’epoca più stupida della Storia dove i colleghi hanno paragonato Lucio Corsi a David Bowie, Motta cantore della mia generazione in declino, Calcutta come nuovo Bob Dylan, non mi stupisce l’entusiasmo per il nuovo biopic di James Mangold su Dylan, A Complete Unknown, in questi giorni nelle sale e candidato ai prossimi Oscar. Mangold aveva offerto sull’altare di noi curiosi la vita difficile di Johnny Cash, Walk the Line, e l’amore febbricitante per June Carter, cesellando vent’anni fa un biopic che era intrattenimento quanto riflessione, omaggio quanto un ritratto veritiero e a tratti anche impietoso di un grande della musica. La scelta di Joaquin Phoenix, perfetto nel ruolo del Man in Black, era azzeccata se non nella prossimità fisica in quella di vita vissuta ed emotività: Joaquin come Cash perse un fratello, River, la stella più promettente di quella Nuova Hollywood tra gli anni ’80 e ’90. Mangold sembra rifare la magia scegliendo Timothée Chalamet (l’attore si è beccato una bella nomination all’Oscar) che meriterebbe sicuramente un plauso sia per la bravura canora che l’espressività mai caricaturale: lo sguardo freddo e al contempo languido, l’incurvatura delle spalle, la magrezza molle di una persona abituata a scrivere e mai a fare esercizio, la voce nasale e quell’aria distaccata e altera, sembra di rivedere Bob Dylan ringiovanito. In A Complete Unknown il regista prende una finestra temporale molto più piccola rispetto al lavoro su Cash: si parte dall’arrivo di Dylan a New York nel 1961 fino alla svolta elettrica nel 1965 al Newport Folk Festival. Un giovanissimo Bob va a trovare in ospedale Woody Guthrie (Scott McNairy) e gli dedica una canzone, il padre della canzone di protesta e Pete Seeger (Edward Norton) rimangono colpiti e quest’ultimo invita il ragazzo a rimanere a NY e farsi conoscere nella scena. Dylan Goes Electric è il libro di Elijah Wald che ha ispirato Mangold a raccontare un segmento di una vita altrimenti immensa: la ribellione del cantante alle aspettative dell’etichetta, del pubblico folk e anche della stessa Baez.

In fondo tra triangoli amorosi non richiesti che hanno l’afflato pari a zero (Dylan/Russo/Baez) la lezione – se ce n’è una – che vuole darci Mangold è che bisogna rimanere fedeli al proprio mito personale, e Bob Dylan, che vi piaccia o meno, lo è da 60 anni: che sia sfruttare (?) la fama di Baez per conquistare la scena di New York, registrare album solo di cover, oppure scrivere canzoni di protesta usando personaggi di cronaca nera spacciandoli per eroi della classe operaia o martiri, e Lester Bangs smontò chirurgicamente la maschera di Dylan nella recensione del disco Desire e parlando delk mafioso Joey Gallo. E anche il regista di questo biopic lo sa, perché per quanto sia – come dicono i titolisti idioti su Facebook – tutto bello e bellissimo, non c’è stato un solo minuto in cui abbia provato uno slancio di empatia o abbia creato un qualche legame con Dylan, mai, in più di due ore di film. Sarò prevenuta? Forse, eppure appartengo alla schiera di persone che non concepisce logicamente i detrattori musicali di Bob. Sarà che non è obbligatorio creare un legame coi protagonisti delle storie che vediamo? Nì, se rimangono indifferenti qualcosa non va a livello di scrittura e, infatti, Mangold si è interfacciato moltissimo con Dylan per la sceneggiatura di questo film che pare una versione ufficiale di quello che il cantante, il poeta, il premio Nobel vuole che si sappia di lui.

Non voglio dire che bisogna arrivare ai punti dove fan e giornalisti ravanavano nella sua spazzatura di Dylan, ma che sarebbe stato bello qualcosa fuori posto, una sfilacciatura, altrimenti facciamone un documentario, perché nelle intenzioni è fasullo tanto quanto il Montage of Heck su Kurt Cobain e finiamo esauriti come Sylvie Russo quando si lamenta con Dylan di non sapere nulla del suo passato. A Complete Unkown non si concentra neanche troppo sulla portata emotiva (per certi versi la esagera) che coinvolse il pubblico folk quando Dylan passò alla chitarra elettrica, consegnandolo definitivamente alla storia della musica, soprattutto se consideriamo che uscirono album come Highway 61 e Blonde on Blonde (anche perché era già passato all’elettrico prima di Newport). Forse è lo stesso tipo di sconvolgimento che vivranno i nostri figli quando Fedez inizierà a cantare senza auto-tune, d’altronde Tony Effe sta prendendo lezioni di canto in vista di Sanremo. Forse Mangold pecca di eccessiva delicatezza nei confronti di una leggenda vivente, impegnandosi maggiormente nel triangolo tra l’uomo, Joan Baez (Monica Barbaro) e Sylvia Russo (Elle Fanning). Russo è in realtà la fidanzata dell’epoca Suzie Rocco, la ragazza abbracciata al cantante nella bellissima copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan. Ciò che rimane di A Complete Unknown è proprio questo: uno sconosciuto. Si, ma quanti sconosciuti hanno scritto Sad Eyed Lady of the Lowlands?